Viktor Orbán è in cerca di legittimazione e spera di trovarla passando attraverso un referendum. Una consultazione giuridicamente non vincolante che verrà sottoposta alla popolazione ungherese entro il 10 gennaio 2024. Ci sono undici quesiti sulle politiche europee, alcuni contenenti informazioni non veritiere o comunque non verificabili. Uno strumento che sarà utile al presidente ungherese per dimostrare a Ursula von der Leyen che quelle posizioni che lo stanno sempre più isolando dal resto dell’Unione europea sui temi di maggior rilevanza, come il rapporto con la Russia di Vladimir Putin e il sostegno all’Ucraina, sono espressione della volontà popolare.
Il referendum si struttura in quesiti a risposta chiusa con due possibili scelte: la prima è sempre quella più aderente alla posizione del Governo, mentre la seconda esprime apprezzamento per le politiche di Bruxelles. Ogni domanda è introdotta da una didascalia che tende a suggerire una risposta, ed è proprio in quelle poche righe che si concretizza la strategia di Budapest. La numero quattro, ad esempio, inizia affermando che l’Unione europea ha intenzione di creare ghetti per i migranti in Ungheria: «Invece di decidere da soli, Bruxelles vuole determinare con chi viviamo e a chi permettere di entrare nel nostro paese. Vogliono obbligarci a far entrare i migranti nel paese prima ancora che le loro domande di asilo siano state completamente esaminate. Questo creerebbe ghetti per migranti anche in Ungheria». La scelta è tra «decidere da soli» o condividere le scelte europee.
L’Ucraina è protagonista di quattro domande su undici, tutte anticipate dalle consuete didascalie: si va dallo «spremere il bilancio dell’Ungheria per finanziare Kyjiv mentre a Budapest vengono congelati i fondi» allo sconvolgimento degli attuali sistemi di finanziamento dell’UE qualora l’Ucraina entrasse in Europa. A completare il quadro ci sono poi i finanziamenti che Bruxelles avrebbe concesso ad Hamas, le pressioni europee per rimuovere la legge a tutela dei minori e le influenze straniere nella politica interna magiara. Insomma, il menu sovranista completo arricchito da informazioni false o non verificabili che il Governo ungherese pone con una naturalezza piuttosto spregiudicata anche per una democrazia illiberale.
L’Ungheria porta avanti lo scontro con la Commissione von der Leyen già da diverso tempo ma il congelamento di quasi ventinove miliardi di euro di fondi europei a causa delle violazioni sullo stato di diritto, sul sistema giudiziario e sull’immigrazione, inizia a creare difficoltà ai bilanci di Budapest. Orbán sembra convinto che alzando il livello della discussione e continuando a porre i veti sulle questioni sensibili come il sostegno a Kyjiv riuscirà ad averla vinta. Una strategia che però finora non ha pagato visto che nonostante le continue provocazioni, come la partecipazione al Belt and road initiative forum di ottobre a Pechino con tanto di stretta di mano e foto di rito con Vladimir Putin o come il ricatto che tiene ancora sospesa l’adesione della Svezia alla Nato, Bruxelles ha mantenuto i fondi bloccati.
Negli ultimi tempi poi il leader magiaro si è trovato più isolato. Da qualche mese ha perso l’appoggio della Polonia –sua miglior alleata in Europa– dopo che il PiS non è riuscito a vincere le elezioni e sarà quindi l’europeista Donald Tusk a formare il nuovo esecutivo. Il rapporto con Meloni è ormai solo di facciata e con Mateusz Morawiecki fuori dai giochi al presidente ungherese manca un alleato di peso. Orbán troverà una nuova sponda nello slovacco Robert Fico, ma non è esattamente una plusvalenza dal punto di vista politico. In futuro potrebbe esserci Geert Wilders, fresco di vittoria nei Paesi Bassi, ma non è detto che il capo del Pvv riesca a formare un Governo. Fidesz peraltro è ancora in cerca di una famiglia politica europea e visto l’atteggiamento filorusso che continua a mantenere viene difficile pensare che possa accasarsi tra le fila dei conservatori di Ecr. Detto che il Ppe non è un’opzione –e a meno che non nascano nuovi gruppi– resta solo Identità e Democrazia. Rimanere un altro mandato tra i non iscritti significherebbe non avere cariche all’interno dell’emiciclo. Non il migliore degli scenari.
I problemi però non si limitano alla politica estera: stando a un sondaggio di Republikon, il partito di Orbán ha perso cinque punti percentuali nell’ultimo anno. Pur rimanendo ampiamente il primo partito ungherese, a Fidesz servirà ritrovare lo slancio dei giorni migliori in vista delle elezioni europee di giugno. Una perdita di consenso di questo tipo, seppur minima rispetto al dato generale, non deve aver lasciato indifferente il leader ungherese. Ed ecco allora il coup de théâtre con la consultazione pubblica sui temi più cari all’elettorato orbaniano alla quale si sono aggiunti, negli ultimi giorni, i manifesti comparsi in giro per Budapest che ritraggono von der Leyen ed Alex Soros, figlio di George, accompagnati dalla scritta «non siamo disposti a ballare sulle loro melodie». Una campagna simile a quella che si era vista con Juncker qualche anno fa quando poi i manifesti vennero rimossi a seguito dei richiami del Ppe. La solita strategia elettorale di Orbán, con la differenza che questa volta c’è in ballo una fetta importante del bilancio ungherese.