Convivenza di oppostiL’arte di Kate MccGwire è fatta di piume di colombo e sogni a occhi aperti

Attraverso un’introversione eretica, la scultrice britannica realizza le opere attraverso materiali di scarto animale, organiche, sospese nel tempo

KateMccGwire, photo by Matthieu Gauchet

Può suonare strano, ma Kate MccGwire è un’artista universalmente riconosciuta come la regina delle piume di piccione. L’artista, classe 1964, ha fatto di uno scarto, che non si può nemmeno acquistare, materia d’arte e occasione per riflettere sulla bellezza e sulla condizione ambivalente del vivere nella contemporaneità: nulla è certo né scolpito nella roccia, le forme si fanno liquide, seppur immutabili, a raccontare un’evoluzione continua, raramente lineare.

La ricerca artistica di MccGwire è incentrata sulla convivenza di opposti. Le sue opere sono sempre caratterizzate da forme sinuose e contorte che sembrano dare vita a creature e scene fantastiche, ma allo stesso tempo plausibili. Di fronte ai suoi lavori si provano sensazioni ambivalenti di seduzione e repulsione, ma mai indifferenza. Anche le forme appaiono organiche e astratte allo stesso tempo: fluttuano leggere nella loro staticità monumentale. È come se tutto il lavoro di quest’artista, a tratti compulsiva e meditativa, trovasse un precario punto di equilibrio grazie al controllo e alla fusione di tensioni materico-visive. In fondo l’arte è proprio quel momento di sospensione del giudizio, di apertura all’altro e all’altrove, così fortemente evocato e invocato da tutta la ricerca di Kate MccGwire. Abbiamo avuto modo di intervistare l’artista e conoscere meglio un lavoro tanto complesso quanto ipnotico e facilmente fraintendibile.

Kate MccGwire, photo by JP Bland

Come e quando ti sei avvicinata alle piume?
Trovavo regolarmente delle piume mute e abbandonate nelle mie passeggiate quotidiane con il mio vecchio cane Tilly. Quando mi sono laureata al Royal College nel 2004, ho scoperto una colonia di piccioni in un magazzino su un’isola fatiscente sul Tamigi nel sud di Londra dove ho ormeggiato il mio studio, una chiatta olandese di centoquindici anni, che si chiama Barton B. Trovare tante piume contemporaneamente mi ha spinto a iniziare a raccoglierle e a dare forma a una mia forte fascinazione nei confronti della dualità di cui sono portatrici. Il nostro vivere e la nostra cultura è piena di riferimenti alle piume.

Anche se usi scarti, le tue sculture sono imponenti ed elegantissime. È questa catarsi che ti interessa?
C’è qualcosa nel riusare e dare nuova vita, persino nobilitare questi materiali che mi risuona e scuote davvero nel profondo. Sono attratta dal processo ciclico di lavoro con le mie amate piume di piccione, perché non tutti lo sanno, ma le piume naturalmente mutano in aprile e ottobre, vengono quindi raccolte una per una, inviate allo studio per essere lavate, ordinate, classificate, tagliate e preparate prima di quello che io definisco il “risveglio” nell’arte del mio lavoro. Allo stesso modo con i maestosi fagiani che sono stati allevati in cattività, allevati in natura e fucilati per lo sport, quando le piume scartate si fanno strada verso il mio lavoro, offro loro una nuova prospettiva di vita, mostrandone la loro intrinseca e vera magnificenza.

Kate MccGwire, photo by JP Bland

Non temi di essere criticata a causa di una problematica di natura “animalista” per l’uso delle piume?
Le piume che uso nel mio lavoro provengono da tutto il paese attraverso una meravigliosa rete di proprietari di piccioni, guardacaccia e membri del pubblico in generale. Le piume dei piccioni sono infatti un materiale di scarto. La scelta di raccogliere un materiale che non è possibile acquistare è stimolante e creativo al tempo stesso, perché implica un vero processo collaborativo: io devo descrivere ciò che faccio e convincere qualcun altro, non per forza proveniente del mondo dell’arte, ad avere fiducia nel mio progetto e quindi essere disposti a darmi il loro tempo/materiale. Questo spirito è parte integrante del processo artistico e perciò della mia arte in fondo partecipativa.

Il tuo lavoro sembra molto pittorico anche se tridimensionale: come nasce una delle tue opere?
Varia a seconda del tipo di lavoro ma per le installazioni inizio passando il tempo alla ricerca, considerando lo spazio e l’ambiente, la storia e lo stile dell’edificio. Sono vecchia scuola quindi lavoro da prima sulla carta per creare il concetto attraverso il disegno. Il carboncino mi permette di avere libero sfogo, di considerare ipotesi di volumi, forme e proporzioni che si complicano quando si inizia a lavorare con materiali fisici in 3D. Sulla carta posso immaginare un’idea e capovolgerla nella mia mente, familiarizzando con lo spazio. Dopo questo brainstorming creativo e generativo passo a un’altra parte importante del processo, ovvero la creazione di disegni in scala che rielaboro numerose volte. Ma è difficile disegnare fisicamente in 3D, così ho scoperto che una volta che ho le dimensioni esatte per lavorare intorno devo lavorare intuitivamente e andare dritta alla realizzazione da zero quando sto lavorando sulla forma finale reale.

Kate MccGwire, photo by Jo Scott

Il tuo lavoro appare sempre segnato da una certa inquietudine: non è un lavoro solare, ma viscerale e introverso: non è vero?
Mi interessa come l’essere umano sia attratto da quelle cose, che al tempo stesso gli generano repulsione e inquietudine: ciò che è familiare, quando viene visto e collocato fuori dl contesto, sfida la ragione e quindi ci allarma. Io amo esplorare questa sottile linea di demarcazione: non voglio disgustare né scioccare, ma piuttosto sottilmente turbare lo spettatore, smuoverlo nel profondo in qualche modo. Il mio lavoro si alimenta in uno stato viscerale senza parole, attingendo alla mia propria mitologia subconscia e scatenando inevitabilmente il subconscio di chi ho di fronte. In fondo le mie opere sembrano chiedere allo spettatore: come ti senti? Che cosa significa per te quello che stai vedendo? Per me non è importante che ci sia una risoluzione né in me né nello spettatore. Non a caso i titoli dei miei lavori hanno sempre molteplici significati spesso corporei e molte volte inquietanti.

Questa tensione e ambiguità di senso e contenuto avvicina molto il tuo lavoro rimanda fortemente al surrealismo di Max Ernst o sbaglio?
Sono sempre stata attratta da Ernst e ci sono certamente alcuni temi paralleli nel nostro lavoro, in primis il suo uso innovativo dei materiali; ci sono così tante possibilità e infinite potenzialità quando si lavora con cose che altrimenti potrebbero essere considerate scartate, impermanenti o trascurate. Questo è qualcosa che non manca mai di catturare la mia immaginazione. Allo stesso modo, Ernst era anche famoso per i suoi modelli ritmici e l’uso di metodi ripetitivi; alcune persone potrebbero pensare che sia un po’ monotono, ma io trovo che i processi ripetitivi della mia pratica possono diventare quasi una forma di meditazione: nel mio lavoro come in quello di Ernst il tempo perde di consistenza e le ore potrebbero volare in quello che sembra un istante.

KateMccGwire, photo by Tessa Angus

Che ruolo hanno le dimensioni nel tuo lavoro, che spesso ha una forte connotazione spaziale?
Le installazioni sono realizzate in luoghi che suscitano il mio interesse. Adoro creare pezzi in edifici storici, lavorare e rispondere ad architetture spettacolari, ma anche a quelle trascurate e abbandonate. È infatti sempre una sfida gradita lavorare con uno spazio che è bizzarro o stridente. Certo è una continua sfida fare un lavoro che può tenere il suo in uno spazio così caratterizzante e spesso la grande dimensione è stata l’unica via possibile per lasciare il segno. Ma la dimensione non è l’origine del mio lavoro, ma una conseguenza dello spazio e di ciò che voglio narrare. Infatti amo creare anche sculture più piccole, impiegando le vetrine che riprendo dai musei di storia naturale o dalle vetrine di tassidermia: sono infatti spazi quasi claustrofobici in cui i corpi che creo si contorcono, intrappolati e senza aria.

Sei una persona che non riesce a stare ferma, immagino che anche il tuo lavoro sia in continua evoluzione. Quindi in che direzione stai andando?
Di recente ho incorporato in una scultura sezioni di alambicchi di rame scartati. Questa è stata la mia prima volta lavorando con un materiale come questo e sento che ha spinto il mio lavoro in una nuova direzione. Per festeggiare il mio sessantesimo compleanno l’anno prossimo spero di imparare sessanta “nuove” abilità da poter inserire nel mio lavoro: saldatura, ceramica, tessitura, ma anche fotografia e ricamo. Voglio immergermi ancora di più e sempre più nel processo di realizzazione, utilizzando materiali diversi per espandere il significato di ciò che creo. Spero di continuare a spingere i confini della mia pratica e sperimentare nuovi processi.

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