L’Onu, con la sua organizzazione per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa, ha creato uno tra i più importanti ostacoli che si frappongono alla nascita di uno Stato di Palestina. Un paradosso apparente e una contraddizione reale che molto dice della crisi terminale delle Nazioni Unite.
Il fatto è che il Diritto al Ritorno in Israele di quasi sei milioni rifugiati palestinesi è stato in passato, e sarà un domani, un ostacolo insormontato e insormontabile in tutte le trattative tra il governo di Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Rifugiati – questo è il punto – conteggiati secondo canoni artificiali e unici al mondo, letteralmente inventati dall’Unrwa per i soli palestinesi, che li moltiplica del cinquanta rispetto al dato reale e storico.
Abu Mazen e la dirigenza della Anp, così come Al Fatah, l’Olp e Hamas infatti sono sempre stati inflessibili nel pretendere che venga riconosciuto a tutti rifugiati all’estero palestinesi della guerra del 1948 il diritto a riavere le loro case e i loro beni. Di ritornare in Israele, quindi.
Questi rifugiati all’estero, all’epoca, furono settecentocinquantamila e ovviamente, settantasei anni dopo, sono quasi tutti deceduti a eccezione di chi allora era bambino o ragazzo. Dunque, nei fatti, il problema non esiste più, se non in termini ridottissimi e quindi facilmente risolvibili e pienamente accettabili e accettati da Israele. Invece il problema persiste ed è enorme e insormontabile a causa dell’unicum nel diritto internazionale introdotto artificiosamente dall’Unrwa.
Il suo statuto, infatti, ha stabilito che lo status di rifugiato, per i palestinesi – ripetiamo, solo per i palestinesi – è ereditario. Un diritto ereditario che vale unicamente per loro e per l’Unrwa, perché per l’altra organizzazione dell’Onu dei rifugiati, l’Unhcr, che assiste oggi ben centoquattordici milioni di rifugiati, lo status di rifugiato non si trasmette affatto per eredità, cessa con la morte del soggetto, e non si estende assolutamente ai suoi figli come risulta dal suo statuto che si rifà alla Convenzione di Ginevra.
Come è normale e ovvio, perché in tutte le nazioni del mondo i rifugiati, passato un certo numero di anni, tendono a naturalizzarsi, a prendere la cittadinanza del Paese ospite. Ma non è affatto così per i rifugiati palestinesi perché tutti i paesi arabi in cui hanno trovato riparo, a eccezione della Giordania, hanno sempre negato e negano tuttora la propria cittadinanza ai rifugiati palestinesi che continuano a vivere come dei paria, senza contratti di lavoro regolari, negli appositi campi profughi. Campi che sono stati per decenni il terreno privilegiato di reclutamento per il terrorismo palestinese, tanto che Abdel Ghassem Nasser ha dichiarato: «I rifugiati sono la pietra angolare della lotta degli arabi contro Israele. I rifugiati sono l’arma degli arabi e del nazionalismo arabo. I Profughi non ritorneranno finché la bandiera d’Israele sventolerà sul suolo della Palestina. Torneranno quando la bandiera palestinese sventolerà su tutta la Palestina».
Per dare corpo a questa cinica posizione, Nasser aveva esteso – sino alla guerra del 1967 – la sovranità dell’Egitto sulla Striscia di Gaza, ma si era rifiutato di riconoscere la cittadinanza ai palestinesi della Striscia, che in questo modo, pur abitando da sempre in quella terra, erano diventati profughi in terra araba straniera.
Risultato di questo uso strumentale dei profughi: oggi per l’Unrwa i rifugiati palestinesi sono cinque milioni e novecentomila in totale. In realtà poche decine di migliaia sono i rifugiati veri, fuggiti nel 1948, la quasi totalità sono invece eredi di rifugiati. Ma Abu Mazen, la Anp, al Fatah, l’Olp e Hamas pretendono rigidamente e assolutamente che sia loro riconosciuto il diritto di ritornare a risiedere in Israele. Se questo paradosso si verificasse, gli ebrei in Israele, che sono 6.340.600, si troverebbero a essere una marcata minoranza a fronte della somma di sette milioni e settecentomila (somma degli arabi già cittadini di Israele e degli arabi palestinesi ritornati).
Sarebbe di fatto la fine di Israele che diventerebbe uno Stato arabo con una consistente minoranza ebraica. Ed è questo, appunto, il chiaro obbiettivo che si prefigge la dirigenza palestinese. Un trucco banale, tipico della non eccelsa tradizione politica palestinese.
Inutilmente, i primi ministri israeliani – Ehud Barak nel 2000, così come Ehud Olmert nel 2008 – quando si dissero disposti a restituire il novantatré per cento dei Territori occupati, sul punto hanno proposto una equa mediazione: Israele accetta il ritorno di centomila rifugiati – grosso modo, in eccesso, i veri rifugiati del 1948 superstiti – e elargisce delle compensazioni in denaro ai restanti.
Proposte seccamente rifiutate. Per l’ennesima volta lo Stato palestinese è stato affossato da una posizione palestinese massimalista e incomprensibile.
È fondamentale ricordare che nessuna altra nazione al mondo esige il Diritto al Ritorno dei propri connazionali rifugiati. Si è sempre guardata bene dal farlo, ad esempio, l’Italia che mai lo ha richiesto né alla Yugoslavia, né alla Slovenia, né alla Croazia per i trecentocinquantamila rifugiati italiani fuggiti dalla pulizia etnica e dalle foibe dall’Istria e dalla Dalmazia del 1945, né lo ha fatto nessun altro Paese. Si pensi solo ai quattordici milioni di tedeschi fuggiti dalle nazioni dell’Est Europa alla Repubblica Federale Tedesca e nella stessa Repubblica Democratica Tedesca nella primavera del 1945.
Sta di fatto che una fondamentale Agenzia dell’Onu si rende responsabile di un intralcio enorme alla soluzione “due popoli, due Stati”.
È peraltro interessante ricostruire le ragioni che hanno permesso all’Unrwa di inventarsi letteralmente la figura giuridica dello status ereditario del rifugiato. Nel 1949, infatti, quando l’Onu la istituì, fortissime erano le pressioni dentro l’amministrazione statunitense per recuperare un rapporto con i Paesi arabi, ancor più dopo la cocente sconfitta da loro subita con la prima guerra contro Israele nel 1948. Pressioni che avevano visto nel 1947 e nel 1948 i principali esponenti del governo americano schierarsi nettamente contro la nascita dello Stato di Israele. Fecero letteralmente di tutto per impedirla, perfino ribaltare in sede Onu gli ordini del presidente Harry Truman.
Ovviamente, erano contrarie alla nascita di Israele anche le “Sette Sorelle” che monopolizzavano le forniture mondiali di petrolio e il cui appoggio era fondamentale per l’amministrazione statunitense – la potente lobby del petrolio, insomma.
Una contrarietà netta, basata sul pericolo, che giudicavano certo, della fine dell’alleanza americana con i Paesi arabi, che si sarebbero spostati nell’orbita delle alleanze con l’Unione Sovietica per vendicarsi dell’appoggio americano a Israele.
Lo stesso Harry Truman aveva dovuto imporsi duramente e con fatica contro tutto il proprio governo, che optava per un unico Stato binazionale con gli ebrei in minoranza, non solo per votare il 29 novembre 1947 a favore della risoluzione Onu per la bipartizione della Palestina, ma addirittura per un pronto riconoscimento della proclamazione dello Stato di Israele il 14 maggio 1948.
Questo, in un contesto che vedeva in quegli anni maturare un cambiamento fondamentale nella struttura economica e quindi politica degli Stati Uniti. Con la fine della Seconda guerra mondiale, infatti, gli Stati Uniti erano di colpo diventati grandi importatori di petrolio, da esportatori quali erano sempre stati. Quindi, le fondamentali e strategiche forniture energetiche importate per rispondere alle necessità del colosso industriale americano dipendevano in grandissima parte, per la quasi totalità, dai Paesi arabi o islamici, feroci avversari dell’esistenza stessa di Israele. Paesi che la Casa Bianca intendeva in tutti i modi recuperare e indennizzare, dopo lo shock della Nakba, della sconfitta militare subita dall’esercito degli ebrei.
Da qui, il pieno assenso americano l’11 dicembre 1948 alla risoluzione 194 dell’Onu che stabiliva il diritto volontario dei rifugiati – quelli veri, quelli di allora – di ritornare nelle loro case e, di conseguenza, nel 1949, l’assenso alla istituzione, richiesta a gran voce dagli Stati arabi e islamici, di una specifica Agenzia Onu di sostegno ai soli rifugiati palestinesi, l’Unrwa, appunto, con budget privilegiato rispetto alla Agenzia di sostegno ai rifugiati di tutto il pianeta.
Oggi, l’Unrwa gode di un finanziamento dall’Onu che è circa un decimo di quello dell’Unhcr, ma assiste un numero di rifugiati che è circa un ventesimo di quelli assistiti dall’Unhcr. Ma allora, sempre in nome di una politica filoaraba, Washington diede anche la piena mano libera ai Paesi arabi e islamici nel definirne lo Statuto. Infatti, rispetta in pieno il diritto islamico – e peraltro viola nettamente il diritto liberale – la disposizione statutaria dell’Unrwa, che stabilisce che «sono idonei alla registrazione quali rifugiati i discendenti dei palestinesi maschi, inclusi i figli adottivi». Un’invenzione assoluta e priva di precedenti né di repliche per i rifugiati di nessun’altra parte del mondo. Una anomalia con effetti deflagranti sulle trattative per la nascita dello Stato palestinese.
È questa, peraltro, una chiara discriminazione di netta marca shariatica nei confronti delle palestinesi femmine che l’Unrwa e l’Onu perpetuano sino ai giorni nostri. I figli delle rifugiate palestinesi che in seguito si sono sposate con arabi di altri Paesi non ereditano infatti lo status di rifugiato.
Ma l’impatto negativo dell’Unrwa sulla crisi palestinese, e nello specifico di Gaza, non si limita all’invenzione di cinque milioni e novecentomila rifugiati che tali non sono e che intralciano tutte le trattative di pace.
L’agenzia, infatti, ha un budget di spesa tipico della mentalità Onu: assistenziale e non indirizzato alla autonomizzazione degli assistiti. Utilizza infatti ben il settanta per cento delle sue entrate per pagare gli stipendi del proprio staff. Dunque, non si impegna minimamente nel finanziare col microcredito iniziative produttive e artigianali dei rifugiati. Men che meno finanzia la loro qualificazione o riqualificazione professionale. Inoltre, concentra il quaranta per cento delle proprie risorse a Gaza, dove i rifugiati da Israele sono una nettissima minoranza rispetto a quelli rifugiati in Giordania, Libano, Siria e Cisgiordania.
Le sue risorse vengono impegnate essenzialmente per pagare gli stipendi dei suoi 13.448 dipendenti nella Striscia in centocinquantaquattro strutture, dei quali 11.108 sono impiegati nei programmi educativi e 1.084 in quelli medico-sanitari. Di fatto, l’Unrwa mantiene direttamente un grosso nucleo della popolazione di Gaza. È parte integrante della politica di welfare islamico dispiegato da Hamas, costituisce l’asse portante del sistema educativo nella Striscia ed è conseguentemente organica ad Hamas stesso sotto tutti i profili, tanto che il sindacato interno è, appunto, controllato di fatto da Hamas.
Un quadro sconcertante, di contiguità tra una agenzia Onu e un’organizzazione terroristica che diventa ancora più grave e allarmante se si guarda ai libri di testo adottati dalle scuole Unrwa. Come denunciato da un protocollo del Parlamento Europeo nel 2021, questi libri di testo sono pieni di esaltazione del “martirio”, cioè degli attentati kamikaze contro i civili israeliani; pubblicano cartine geografiche “dal fiume al mare”, che riportano quindi la dicitura Palestina su tutto il territorio di Israele – che scompare – oltre che sulla Cisgiordania; esaltano «il Jihad che è una delle porte del paradiso»; definiscono «nemica l’Entità sionista»; riportano provocatoriamente il falso quando affermano che «i sionisti hanno dato il fuoco alla moschea di al-Aqsa» e propongono questioni di aritmetica tipo «quanti sono i martiri della prima Intifada?». Non stupisce che molte di queste scuole, nella piena omertà complice dell’Unrwa, siano usate da Hamas come depositi di armi o come basi di lancio dei razzi.
Non stupisce neanche che queste scuole e questi insegnanti Unrwa che allevano i giovani palestinesi all’odio per gli ebrei e all’esaltazione del Jihad abbiano formato i carnefici palestinesi che hanno fatto il pogrom del 7 ottobre 2023.