«Il fatto che Matteo Salvini ascolti De André dimostra che esiste il forte rischio che certe persone non capiscano i testi», dice un giovane cantautore in un’intervista, e io, come chiunque abbia lo scoraggiante compito di lavorare con le parole in un’epoca la cui idea di complessità culturale sono le faccette di Khaby Lame, penso: maggiùra.
Ve l’avevo detto che sarebbe toccato riparlare del documentario su Giorgio Gaber, e la colpa è di certi commenti che ho visto sui social, certo, è colpa dei giovani cantautori che si accorgono del fatto che le parole sono una lingua morta solo se gli toccano De André, certo, ma soprattutto è di Barack Obama.
Le parole sono una lingua morta: vi ricordate quando si poteva ragionevolmente dire che, se il lettore o lo spettatore o l’ascoltatore non capivano, eri tu che ti eri espresso male? Lo diciamo ancora, perché appunto le parole sono una lingua morta e quindi le ripetiamo svuotate di senso, ma non è più vero, non lo è mai.
Ieri mi hanno fatto vedere una tirata contro un editorialista fatta da un blogger. Vi ricordate quando esistevano i blog? Ho appena rivisto “Studio 60”, i cui protagonisti nel 2007 parlavano della «gente in pigiama», cioè dei blogger che dal loro divano discettavano del mondo, con un disprezzo che ora è molto tenero. Ora che la gente in pigiama con uso di subordinata pare un’età dell’oro, in confronto ai meme o ai reel.
Comunque, questo tizio che continua a scrivere su un blog, bizzarro caso di relitto d’un’epoca semi-antica che se la prende con quella antichissima dei giornali, sgridava un editorialista che aveva citato Keynes: come fai a non spiegare chi è, come puoi pensare che un ventenne conosca Keynes.
A parte che il ventenne Keynes ce l’ha fresco di studi liceali, ma quand’è diventato un mondo in cui la cosa più spaventosa che ci possa succedere è incontrare qualcosa che non conosciamo? (È una domanda retorica, lo sappiamo benissimo quando: quando abbiamo iniziato ad avere i riscontri immediati e, se tutti cliccano su «I cinquanta tweet più spiritosi sulla telefonata della Meloni» e nessuno sulle tue ipotassi, la prossima volta ti esprimerai anche tu in maniera semplificata, invece di ammorbarci con quattro cartelle che pretendano che i lettori abbiano riferimenti culturali).
“Amici miei” uscì quando avevo tre anni e cinque giorni, ma in realtà è ancora più vecchio: doveva farlo Pietro Germi, poi Germi morì, l’idea passò a Monicelli. Lo scrissero alcuni geni delle parole quando le parole erano una lingua viva. Quei geni sono tutti morti, e meno male: non gli tocca assistere alla terrificante appropriazione di «supercazzola».
La supercazzola era il trucco del conte Mascetti quando voleva confondere l’interlocutore: inventava parole, suoni verosimili, frasi che facessero sentire il tapino di turno inadeguato ma che in realtà non significassero niente. Quasi cinquant’anni dopo, chiunque osi comporre un concetto più complesso di «cane, pane, minestrina col dado» viene accusato sui social di aver scritto una supercazzola. Le parole sono una lingua talmente morta che rivendichiamo fieri il diritto di non capirla.
«Cane, pane, minestrina col dado» erano, secondo Gianni Boncompagni, i concetti che era in grado di capire il pubblico della prima serata, prima serata nella quale lui preferiva non fare programmi giacché, appunto, aveva delle velleità vagamente più sofisticate: non puoi mettere Carmelo Bene nello studio di Alba Parietti se il tuo pubblico ritiene la più lieve delle raffinatezze intellettuali una supercazzola. Solo che nel frattempo il pubblico della prima serata è uscito dalla prima serata, si è moltiplicato, ci circonda nel Grande Indifferenziato: sono tutti intorno a noi, ed esigono che non complichiamo il pane, né il cane, né la minestrina col dado – e noi ubbidiamo, terrorizzati di perdere qualche clic.
Carmelo Bene non avrebbe più senso metterlo in tv, ci ripensavo guardando Giorgio Gaber ma anche guardando Barack Obama, che ad alcuni decenni di distanza si concedono il lusso delle parole come lingua viva.
Pensavo a Carmelo Bene che da Costanzo dice «me ne fotto nel Ruanda», e oggi arriverebbero gli instagrammatori dolenti a fargli il predicozzo, a preservare quella che Barack Obama chiama «l’innocenza morale». Ma arriverebbero anche i tabloid di destra, quelli che esulterebbero, finalmente qualcuno lo dice che ci siamo rotti i coglioni delle guerre: «Me ne fotto del Ruanda» non può più essere un posizionamento interessante se il controcorrentismo è un gioco delle parti, le parole non possono più destare vero scandalo se sono una lingua morta.
Se siete lettori di giornali, avrete notato che negli ultimi anni le interviste – un genere che sui giornali italiani era già di debolissima esecuzione – sono diventate ancora più brutte. Barack Obama è stato il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America, è un figo pazzesco, è diventato presidente a 47 anni (io a 47 anni non avevo neanche l’autorevolezza per farmi rispondere al telefono dall’agente immobiliare che doveva affittarmi casa). Ma nessuno di questi dettagli lo rende straordinario quanto: Barack Obama è l’ultimo rimasto a parlare in pubblico senza porsi il problema di come equivocherà Vongola75. Ce n’è qualche altro (pochi), ma sono ultraottantenni che non hanno più niente da perdere.
Sabato sulla prima pagina di Repubblica c’era una vignetta di Altan in cui Giorgia Meloni diceva: «Ha detto “Prondo, Melona, gome sdai?”, non potevo non crederci». Se nessuno ha svoltato la giornata di raccolta-cuoricini accusando Altan di essere razzista, è perché c’è solo una lingua più morta delle parole, ed è quella dei giornali di carta: tutti i terrorizzati delle reazioni stizzite dei social, cioè tutti quelli sotto gli ottant’anni tranne Barack Obama, hanno un modo sicurissimo di tutelarsi, ed è mettere le proprie incomprese parole in un posto che non si possa spolliciare dal telefono. Se una cosa non è riportata nei posti che visito gratis mentre sono al cesso, non è mai stata detta.
Se posso fidarmi della mia memoria, Giorgio Gaber faceva “Qualcuno era comunista” nella tournée di quando avevo diciannove anni: le parole erano ancora una lingua viva. L’ho risentita nel documentario su di lui, e mi sono immaginata vividamente tutte le polemiche che oggi accoglierebbero il verso «Lo Stato, peggio che da noi, solo l’Uganda».
È bizzarro parlare di irrilevanza delle parole rispetto a Gaber – lo dice Lorenzo Jovanotti all’inizio del documentario, e sembra una follia – però il verso che citano tutti ma proprio tutti è un verso di cui lui stesso – e Sandro Luporini, che scriveva il grosso dei suoi testi – hanno spesso detto che mica intendevano quello. È quell’abusatissimo slogan: libertà è partecipazione.
Credo ce l’avesse in testa anche la tizia che, molto risentita, la settimana scorsa si è messa a commentare un video di Barack Obama sul mio Instagram. Un video in cui Obama diceva che con la militanza TikTok non è che si vada molto in là, senza capacità di discutere e ascoltare non si va molto in là.
La tizia voleva spiegarci (a me e a Barry) che i social sono importantissimi, ci fanno vedere cose che altrimenti non vedremmo. E in effetti io senza video di bambini sanguinanti pensavo che la guerra fosse il ballo di Truman Capote.
La tizia non ha voglia di studiare, come tutti, non ha voglia di ascoltare se non sé stessa, come tutti, e non ha nessunissima voglia di prendere in considerazione l’idea che ci siano casi in cui tocca stare zitti e imparare, perché quello che parla ha capito il mondo meglio di te. Mai c’è stato, da quando le parole sono una lingua morta, slogan che ci raccontasse meglio di «uno vale uno».
Certo, Gaber e Luporini hanno spiegato in ogni dove che loro intendevano che la libertà è la capacità di incidere sulla realtà, e che se il verso dice una cosa più sbrigativa è perché i versi funzionano così: è una canzone, ci sono le rime, c’è la metrica, mica puoi scrivere le “Catilinarie” in musica.
Ma la tizia questa spiegazione non l’ha ascoltata, e anche se l’avesse ascoltata non l’avrebbe capita, perché le parole sono una lingua morta, e i fatti sono una lingua ancora più morta: altrimenti l’esito della primavera araba le avrebbe messo addosso il sospetto che la capacità d’incidenza sulla storia a mezzo cuoricini del cellulare sia scarsina.
Sono rimaste vive solo le suggestioni, ci governano a parole morte, e fanno sì che ormai valga tutto: Salvini canta “Don Raffae’”, un articolo di quattro cartelle è una supercazzola, e Gaber e Luporini avevano teorizzato l’importanza di Vongola75 per la geopolitica.