Rispetto per i TirannosauriL’ultimo stadio dell’umanità in cui gli studiosi del cosmo buffoneggiano

L’ottava puntata del romanzo in corso di Pasquale Panella, opera di cui non sa nulla, neanche il titolo: «Si parla a vanvera, non solo, si ascolta anche a vanvera. Esperti gorgheggiano, specialisti spumeggiano, si sprizza, si zampilla, si sgorga e disgorga, c’è chi fa bollicine»

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Insomma: gangster anche allarmanti a riguardarli adesso quei ragazzi d’allora (ho la foto della puntata precedente sotto gli occhi, scolastica, agghiacciante). Ma perché parlo solo di questi soggetti e solo al maschile? Perché è quella, questa, la marmaglia che conosco. Bella parola, “marmaglia”. Sì, è convincente che discenda da minimalia, una moltitudine di minimi, di minutaglia, di marmocchi, le bertucce, i botoli, eccoli qua. Li vedo tutti assieme, accozzarsi e poi disperdersi.

Tra ragazzini si cresce per bande, poi le bande si sfasciano per scontri tra interessi su gruzzoli o amorazzi (l’interesse in questione d’amore è di più incerta soluzione contabile, si può sbagliare anche di parecchi zeri). Le ragazze le vedo una per una, come le ho sempre viste, non le vedo tutte assieme, riunite in una parola collettiva, salvo le collegiali (per loro scrissi dei versi cantabili, musicati magnificamente, il brano è gelosamente inedito) finché non ne conobbi una e persi la vista d’insieme (o: persi di vista l’insieme). Generazione, non lo so: è un argomento la generazione? Voglio dire: non ho letto molto in proposito, anzi non ho letto niente anche perché non so ancora leggere come si deve (come si deve?) ma che si dice della generazione? Mi spiego (comincio a esagerare): è chiaro come a me pare che la generazione sia solo una? La mia, voglio dire. Siamo apparsi, quelli della mia generazione e io per primo, in mezzo a gente del passato, e rappresentavamo l’appena dopo, dopo un passato prossimo e un passato remoto (a che servono i tempi verbali se non a farci capire che il tempo è desinenza?) e questa gente aveva percorso millenni sulle onde oceaniche del tempo (davvero vuoi dire così, che t’è preso?) per far rotolare a riva, levigati come ciottoli tra sassolini levigati, noi, esseri inutili però vivaci, gemmati e fruttificati per divertimento e con piacere dallo sbattere delle onde. Far venire alla luce il proprio piacere ondeggiante: credo che procreare significhi questo.

Il figliare è una esuberanza di chi nasce, l’esistenza è una petulanza. Ma perché voglio sempre far quadrare questi cerchi e riempire questi buchi nell’acqua? Basta così: dopo millenni apparve al mondo la generazione, la mia. È un fatto, non è un merito né un privilegio, è una cosa portata a termine, e da portare a termine. Non ne esistono, non ne sono esistite, non ne esisteranno altre? E lo chiedi a me? Lo sanno tutti che no. La generazione è questa, la tua, la generazione della fine, è ovvio e oltre a essere ovvio è una rispettabile fisima. Nel passato non avevano tutto questo tempo da dedicare alle fisime davanti a uno schermo. Non abbiamo altro che ossessioni, approfittiamone. Mi pare che la realtà non offra più appigli né terreno per solide fondamenta, viviamo di timori, sospetti, capricci, presunzione compulsiva, ogni pensiero si forma come una frana in corso. E poi ormai (falla finita con i doppi avverbi, impara a scrivere), devo dimostrare la validità della tesi (pare che la bicicletta sia consigliata anche come mania, hai improvvisato una tesi così su due ruote, adesso pedalala).

Il passato è pieno di gente attendibile, poi nasci tu e con te e dopo te nascono i tuoi contemporanei. Che attendibilità può avere gente che come te è stata neonata, che s’è sbavata addosso, che è stata infantile? (Guarda: nella foto scolastica e solo lì sembrate poco infantili in quelle acerbe pose da duri, crescerete e perderete la posa, ridotta tutta crepe dalla crescita e poi polverizzata). Se non lo sai tu non lo sa nessuno. Chi è stato infantile lo resta, è ormai dimostrato, poi si disorienta inoltrandosi nei labirinti mobili dell’adolescenza, quei contorti e percorribili organi interni pallidi e cavi di gocciolanti mostri alieni provenienti dal pianeta Muco. Come puoi giudicare affidabile chi è nato nel tuo mese e anno o addirittura dopo? Com’è mai possibile che una marmaglia mocciosa abbia voce in capitolo? Da dove ti viene “voce in capitolo”? Stai facendo il verso a chi più grande di te se ne usciva con queste espressioni. Mi pare giusto, il passato offre tutte le garanzie espressive e tutti quei modi di dire belli e fatti, quelle ottime e indistruttibili frasi fatte che non si fanno più, quelle minime banalità che erano massime, quei motti vivaci e arguti, quei motti viventi che dal passato in poi non si sono più visti circolare se non come zombi spiritosi e vividi. Ci sarà un perché?

La tua generazione è l’ultimo stadio dell’umanità, che non diversamente da un razzo è stata sparata nel cosmo, e noi siamo appunto l’ultimo tratto. Siamo la generazione, siamo solo quel che segue a un mondo che aveva dei precedenti, una storia, le basi principali, fondamenta di solido passato, solenni millenni, stratificazioni preistoriche (la preistoria, non scherziamo, ha inventato il petrolio, l’ha ricavato dalle foglie morte, che in noi suscitano solo esalazioni liriche; il petrolio, questo succo vendicativo, distillato goccia a goccia dalla punta del cuore della terra: cominci a capire?). Qui che cosa nell’oggi? Ho sentito neofiti effimeri parlare di ere geologiche per dire del tempo trascorso perché una stravaganza mutasse in ovvietà, molto meno del tempo che occorre per vedere i primaverili rami germoglianti mutare in invernali stecchi intirizziti e vitrei per la glaciazione, non c’è più rispetto nemmeno per i Tirannosauri. Si parla a vanvera, non solo, si ascolta anche a vanvera. Esperti gorgheggiano, specialisti spumeggiano, si sprizza, si zampilla, si sgorga e disgorga, c’è chi fa bollicine.

Vedo ragazze e ragazzi della mia età o addirittura più giovani che, per restare in tema, scrivono libri. Come dirle scrittrici, come dirli scrittori? Giocano, stanno giocando, è evidente. Mi pare siano stati aboliti quei giocattoli discriminanti (sono stati aboliti?) come le corone da regina e gli elmi da pompiere ma, insomma, costore e costoro si baloccano coi libri. Giocano con le parole, infatti hanno la tetra ambizione di ridurre tutto a una stessa storta frase ghignante e nevrastenica, che è appunto il risultato di chi gioca con le parole: arrivare tutti alla stessa distorsione finale (la burletta linguistica per indurre a ultime ghigne, a sinistri deragliamenti del riso: poi cadono i denti; l’hai scritto apposta “motti viventi” più sopra, eh, farabutto? Tendi trappole tu, ti piace sentirle scattare). È dura crescere. Sei circondato da persone sempre più giovani di te, da un mondo che ringiovanisce, e ti senti sempre più circondato da imbecilli. È questo, crescere? Ho dimenticato cosa stavo dicendo. Quando? Ho dimenticato anche quando. Hai notato (tu chi?) che ultimamente anche studiosi del profondo (ovunque sia) o del cosmo (oltre l’ovunque) non resistono alla tentazione di buffoneggiare, fanno esempi burleschi, sono umoristici (magari sono sinceri e l’universo è una raccolta di barzellette sull’universo), vogliono essere capiti (come i comici), compresi, si sentono soli (sempre come i comici), devi fidarti (dei comici?).

Cosa puoi farci se sei contemporaneo dei tuoi simili tu che di te non ti fidi? Che non ti chiedi quindi non esprimi un parere per non metterti in imbarazzo. Hai un parere? Inizia a credere che sia impossibile averlo. E tutto questo accade ora durante la tua generazione. Dai un ultima occhiata alla foto dei duri impettiti. Cosa ti viene in mente? Facemmo compiti in classe per anni, esami finali di Stato (fammi dare importanza alla cosa) e ce li fornivano doppi, per la brutta e per la bella. Di cosa sto parlando? Del foglio protocollo, devo scriverlo maiuscolo Foglio Protocollo. Mi sono mai chiesto cosa mai significasse Foglio Protocollo? Centinaia, migliaia di volte tra le mani, anche piegato per il lungo, e mai che mi sia chiesto cosa mai mi significasse questo “protocollo”, a “foglio” ci arrivavo. Mai. A scuola difficilmente ti chiedi cosa mai significhi quello che ti passa sotto gli occhi. Fai solo il duro e basta (io perlomeno).

Adesso è diverso, tutto è cambiato, ti connetti, vai a guardare, alla fine è un obbligo andare a cercare, a guardare, e lo sai che è così. Tutto esiste a prescindere da te, ti è sovrastante. Quando la ignori, la cosa ignorata non domina su nulla, quasi non esiste, o esiste solo perché tu possa ignorare cosa mai significhi (sai una cosa? La cosa, la cosa che nel dirla senti un tuono e vedi un lampo tutt’assieme? Sai il segreto? Fai conto di non stare a sentire. È questa la cosa, questo il segreto: niente, di per sé, significa niente. Che poi è ovvio, niente significa niente. Ma ci siamo capiti). Ecco allora che duri si nasce, magnificamente ignoranti, la foto è veritiera, si nasce duri, come la frutta, acerbi quindi duri, poi si matura per diventare marmellata, ma duri non si diventa. E ancora resisto, non vado a vedere perché mai il foglio protocollo si chiama così. Fatelo voi per me (e non venite a dirmelo in rete).

(8 continua)

Questa è l’ottava puntata di un romanzo in corso del quale non sa nulla, neanche il titolo. Qui si può leggere la settima. Qui la sesta. Qui la quinta. Qui la quarta. Qui la terza. Qui la seconda. Qui la prima.

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