Ho fatto le scuole cattoliche. So le preghiere in latino. Ho perfino fatto la prima comunione vestita da meringa. La cresima no, perché a quel punto ero già ribelle, il che era abbastanza normale: esistevano i rituali, e ai rituali i ragazzini si ribellavano.
Se non ti ribellavi eri mia nonna, che riteneva finita la sua vita allorché, quarantenne, era rimasta vedova, e per i successivi cinquant’anni uscì di casa solo per andare a messa. Eri la moglie del “Gattopardo”, il cui marito riferiva esasperato che si faceva il segno della croce «dopo ogni abbraccio».
Poi ci siamo evoluti, o almeno questa è stata l’illusione. Ho pensato per tutta la vita che il fatto che nessuno andasse più a Messa, che al massimo la gente si sposasse in chiesa perché i matrimoni in municipio son scenograficamente troppo tristi, o facesse battezzare i figli solo per far contenti i nonni o per mangiare le tartine, ho pensato per tutta la vita che fosse un progresso.
La religione, pensavo, non sarà l’oppio dei popoli ma certo non è un segno di svegliezza. Il dramma è che lo penso ancora. Il dramma è che, come l’omino di Altan, ho opinioni che non condivido, e mentre dico meno male che nessuna persona alfabetizzata crede più in nessun dio, penso anche: si stava meglio quando credevate in un qualche dio.
Poiché in natura non esiste il vuoto, il bisogno di religiosità delle masse non è stato abolito: ha cambiato oggetto. Poiché non vanno più in chiesa, gli esseri umani vanno su TikTok. Ogni volta che intravedo su qualche social un rituale postmoderno penso a Guccini, che ha sempre avuto il talento di capire i tempi prima che li capissimo tutti quanti, e che trent’anni fa ricostruiva le settimane pasquali in “Nostra signora dell’ipocrisia”: «E i cavalieri di tigri a ore e i trombettieri senza ritegno inamidarono un nuovo pudore, misero a lucido un nuovo sdegno».
Ieri mi è comparso il video di una tizia. Ha ventinove anni, fa dei video sulla maternità non solo in quanto madre ma in quanto laureata in Scienze filosofiche e dell’educazione. È una giovane donna alla quale le mie tasse hanno pagato un’istruzione superiore, e ha fatto un video in cui distrugge e butta nella spazzatura gli ombretti di Chiara Ferragni giacché «delusa».
Una volta avrei pensato «chissà com’è orgoglioso di te il tuo papà» (che è un verso di “Delusa” di Vasco Rossi: non sapete le preghiere in latino, figuriamoci le canzonette). Adesso guardavo il video e cercavo di capire la liturgia. Prima credi in Chiara Ferragni – non c’è, se non nella devozione, una ragione per comprare gli ombretti col marchio suo invece d’un milione di altri sul mercato. Poi, lo sappiamo come va a finire sul Golgota: Chiara, Chiara, lemà sabactàni? (Sull’aramaico v’immagino più ferrati che su Vasco).
Se gli levi un settore in cui mostrarsi fideista e devoto, l’essere umano trasla questa sua debolezza altrove, e quindi gli esseri umani di questo secolo non dicono il rosario come faceva mia nonna, né vanno a Messa di domenica come facevano i miei compagni di scuola (forse giusto la notte di Natale), ma hanno atteggiamenti irrazionali rispetto a un milione d’altre cose.
Gente che tutto l’anno ha sotto casa Knam e mangia dolci buonissimi si sente monca se le levi il rituale del panettone, un dolce povero che aveva senso quando lavoravi nei campi e il dolce era un lusso da una volta l’anno, un cascame di secoli più semplici e con meno soddisfazione immediata dei desideri sofisticati.
Gente che a casa non ha mai sciacquato un bicchiere si china devota a raccogliere la cacca del cane, cane che è convinta capisca l’italiano (e forse persino altre lingue), cane che bacia in bocca con la sospensione del raziocinio con cui quarant’anni fa avrebbe creduto che un impasto di acqua e farina fosse il corpo di Cristo.
L’altro giorno una giovane donna su Twitter (o come si chiama ora) si è offesa tantissimo perché ho riso d’una sua osservazione sull’aver comprato le uova di Pasqua della Ferragni, e sull’averle comprate perché, visto che «a Pasqua si regalano le uova di Pasqua a bambini e amici», tanto valeva comprare quelle con cui facevi beneficenza. Mi spiace che si sia offesa (ci tengo che la gente si offenda solo quando sono intenzionata a offenderla), ma è la prima volta che vedo una ragazza che festeggia Pasqua, un rituale che pensavo archiviato con la generazione di mia nonna, appunto.
Come in effetti è, giacché escludo che la ragazza si occupi della resurrezione di Cristo: si occupa di cosa sia giusto regalare, e alla sacralità di quel rituale non accetta deroghe, uova di cioccolato a Pasqua, panettone con l’uvetta a Natale, e se beneficenza mi promettono esigo che i miei dieci centesimi di contributo salvino la vita a qualcuno, mica paghino il cachet della testimonial benefica.
Sempre Guccini, sempre trent’anni fa: «Un artigiano di scoop forzati scrisse che Weimar già si scorgeva, e tra biscotti sponsorizzati videro un anchorman che piangeva». Ma anche: «Ed echeggiarono tutte le sere come rintocchi schioccanti a morto “Amen” “Mea culpa” e “Miserere”, ma neanche un cane che sia risorto».
Chissà, adesso che Netflix rifà “Il Gattopardo” trasformandolo in una storia di padre e figlia – e facendo interpretare Concetta, la figlia cessa cui Tancredi preferisce Angelica, da un’attrice figa – chissà se ci toccherà tirare a lucido lo sdegno di «voi Visconti non me lo toccate capitoooo»; o se potremo limitarci a ridacchiare di fronte alla moglie del Principone probabilmente emancipata e non più col buco nella camicia da notte e il rosario in mano.
Lo so, prima ho detto «panettone con l’uvetta» e quindi, nel secolo che riserva la religiosità alle puttanate, ci sarà qualcuno che tira a lucido il vecchio sdegno: cos’è questa blasfemia, nel panettone ci vanno anche i canditi, sennò non è vero panettone. Canditi, canditi: lemà sabactàni?