Happy holidays Nessuno sa più fare conversazione, ma almeno siamo preparati alle feste in famiglia

Le festività natalizie sono diventate come i social network: un susseguirsi di monologhi paralleli in cui saperlalunghisti alternano esibizione di sé a indignazione sul niente

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Una volta, questi erano i giorni del lamento autorizzato. Non sai mio cognato che fascista. Non sai mio cugino che miserabile. Non sai mia sorella che cavatappi mi ha regalato. Non sai mia madre. Non sai mio padre.

Una volta, a Natale vedevi parenti che eri abituata a ignorare il resto dell’anno, e quei parenti erano gente che non t’eri scelta, erano gente cui non interessavano le cose che piacevano a te, che con te non condivideva argomenti di conversazione o altro, che deviava dalle tue frequentazioni abituali.

Poi sono arrivati i social, e la trasformazione della realtà in un talk-show (o: in una serie di messaggi vocali). Ognuno monologa parallelamente, borbotta mentre l’altro sta parlando, ognuno guarda l’interlocutore come fosse il più cretino sulla Terra ogni giorno, tutto l’anno.

Nessuno sa più fare conversazione, neanche gli amici che ci eravamo scelti con tanta cura perché sarebbero piaciuti a Benedetta Craveri, neanche quelli che erano sempre la nostra prima scelta se avevamo un aneddoto meraviglioso: anche loro si sono messi a borbottare mentre racconti, non perché non siano d’accordo, ma perché se stanno dieci secondi senza sentire il suono della loro stessa voce gli viene un coccolone.

E quindi tutto sommato il cognato col marsupio, la cugina con la tinta rosso menopausa, la mamma che, come in “Parenti serpenti”, dice al figlio busone che lo vuole vedere sistemato con una brava ragazza, tutto sommato anche la loro insostenibilità si ridimensiona: sono tali e quali alla gente che vediamo dentro al telefono.

Con cui quindi abbiamo potuto continuare a indignarci, anche a Natale, risparmiando i commensali del desco festivo. Quei commensali che ci eravamo detti, sull’internet, pronti a sbranare. Non ritrovo il tweet (o come si chiama ora), ma un penzierino che mi aveva fatta molto ridere diceva che il femminismo della prima ondata era quello delle donne che volevano il diritto di voto, quello della quarta ondata vuole che venga vietato alla prozia, al pranzo di Natale, di chiederti quand’è che fai un bambino.

Nei giorni prima del Natale, era pieno di giovanotte che, essendo nate quando le generazioni precedenti s’erano già sbattute a ottenere per loro tutti i diritti, promettevano fuoco e fiamme se qualche parente avesse osato interrogarle sulla loro riproduttività. Poi sono tutte scomparse, non si sa se tacitate dalla curva glicemica, o avendo pensato che era meglio continuare a indignarsi per la gente dentro al telefono che per la zia impicciona.

Elenco non esaustivo di cose di cui non si capisce perché debba fregarci qualcosa ma che ci hanno offesi moltissimo durante le festività. Quelli che dicono «buon Natale». Quelli che dicono «buone feste». Quelli (di +Europa) che si sono messi a rielaborare la natività in chiave queer (qualunque cosa significhi). La Meloni che invita all’orgoglio natalizio (io ve l’avevo detto che mettiamo ormai l’orgoglio dappertutto). Quelli che scrivono che la Ferragni ha paura di fare la fine di Kevin Spacey. Kevin Spacey che fa un’intervista natalizia facendo un po’ sé e un po’ Frank Underwood. Il marito della Ferragni che lancia il frisbee con logo Prada al cane. Quelli che dicono che se spendiamo due miliardi e ottocento milioni in giochini per i cani tanto poveri non siamo. Eccetera.

Quando «buone feste» era una preoccupazione da americani, gente abituata a non dare per scontato che l’interlocutore fosse cristiano e quindi a non imporgli festività non sue, ricordo una grottesca scena, a New York, tra un’italiana che lavorava per una multinazionale americana e il portiere del Waldorf Astoria, un dicembre di qualche decennio fa.

Quello diceva «happy holidays», e lei si offendeva: non lo vedeva che era lì per lavoro, perché le diceva «buone vacanze»? Fu allora, molto prima di «jobs act», che capii che gli italiani che nei curriculum dichiarano di parlare inglese come madrelingua poi non sanno ordinare una bistecca al sangue.

Quando il marito della Ferragni è tornato su Instagram, immagino con un mandato esplorativo per saggiare le reazioni in attesa del gran ritorno della bionda contrita – bionda che nel video compariva solo in un angolo: si vedeva una mano, si riconoscevano i tatuaggi – quando il marito è ricomparso, ai miei deschi festivi si sono aperte le scommesse.

La gente si offenderà perché non ha ancora capito come funziona il capitalismo dello scrocco, e pensa che il frisbee di Prada da 490 euro a casa Ferragni se lo siano comprato e io con 490 euro vivo sei mesi? (L’altro giorno ho letto un autorevole editoriale secondo il quale l’astuccio di Chiara Ferragni, se non hai il salario minimo, ti costa un mese di stipendio. L’astuccio di Chiara Ferragni costa quattordici euro, e io non sono praticissima di vita parca ma sospetto che con quattordici euro non campino un mese neanche i frati francescani).

Oppure la gente si offenderà perché, ignara di come funzioni il rapporto tra una casa di moda e i personaggi pubblici, pensa che ogni apparizione di marchio sia una sponsorizzazione, e quindi le storie del frisbee lanciato al cane avrebbero dovuto recare la scritta «adv», dichiarare la réclame, a noi non la si fa, vuoi imporci il consiglio per gli acquisti del frisbee ma non ci caschiamo.

Al cui proposito, nell’elenco ho dimenticato gli offesi perché uno dei figli dei principi del Galles, nella foto in posa diffusa per Natale, ha una camicia bianca con riconoscibilissimo logo Ralph Lauren. Ho letto saperlalunghiste chiedersi quanto sia costato a Ralph Lauren questo product placement, mentre io mi chiedevo che secolo sia mai quello in cui persino gli eredi al trono, allorché bambini di dieci anni, scapricciano al punto che devi lasciargli indossare quella cafonata di camicia da commercialisti, con un logo visibile come i veri chav («chav» sono i maragli d’Inghilterra, quelli che hanno fatto la fortuna di Gucci e Vuitton e tutta la roba logata: non abituatevi a questa cosa che vi spieghi, è mollezza glicemica).

«Ci vuole un adulto nella stanza», ha detto Frank Underwood, il personaggio di “House of Cards” che Kevin Spacey ha interpretato nella sua conversazione natalizia con Tucker Carlson, che gli ha suggerito di usarlo come slogan elettorale se dovesse candidarsi. Parlava di Netflix che «io li ho fatti esistere, e loro hanno cercato di seppellirmi».

O parlava del fatto che neanche a Buckingham Palace i genitori hanno più abbastanza polso da mandarti da un sarto. O parlava del cane ferragno che si rifiuta di riportare il frisbee (con quel che costa).

O parlava delle zitelle cui, al pranzo di Natale, nessuno ha chiesto «quando ci fai un nipotino», perché i presunti adulti erano troppo concentrati a tentare di compiacere i piccoli Buddha già nati, i puccettoni di casa che hanno diritto a tutta l’attenzione e a fare di noi gente che non sa fare più conversazione – giacché abituata a bambini, cani, e altre creature con cui fare le vocette, mica esercitare la dialettica.

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