Avevo grandi progetti per questo articolo. Volevo parlare del primo Natale con “Parenti serpenti” su una piattaforma (Netflix) e “Vacanze di Natale” su un’altra (Paramount), e quindi del primo Natale in cui si poteva guardare il film di Natale senza dividere il divano con la cognata che ci ha regalato un cavatappi a delfino, ma facendo quel che qualche anno fa si faceva allorché adulteri: chiudendosi al cesso col cellulare. Piattaforme, avete esaudito un sogno.
Poi sono andata dal parrucchiere, che mi ha appunto raccontato di aver, prima dell’inizio di queste interminabili festività, visto “Parenti serpenti” su Netflix. La cliente seduta lì vicina si è intromessa ritenendo di spiegarmi che il regista «si chiamava Monicelli», e io ho capito che il tema non era l’intrattenimento di Natale.
Il tema era la sempre più brutta fatica di distinguere tra chi sa le cose e chi no: la signora che deve fare la tinta ai capelli può non avere idea di cosa sappia o non sappia io della storia del cinema italiano; ma il giornalista medio il cui giornale fa cinque articoli al giorno sul pandoro ferragno, quel derelitto lavoratore culturale può andare così a tentoni?
E no, non sto parlando di quando si sono tutti svegliati sulla tuta del video di scuse andata esaurita sul sito dell’azienda produttrice: l’altroieri, quando erano ormai tre giorni che le scorte erano esaurite. Sto pensando ai giornali di ieri, sto pensando a un format per rilanciarli.
Una cosa tipo: cose che i giornali non scrivono del Watergate che ci possiamo permettere. Ieri, nella sezione del Watergate che ci possiamo permettere, Repubblica aveva tra le altre cose un’intervista (fatta dall’AdnKronos, per non smentire la prima regola dei quotidiani quando si tratta di giornalismo di costume: mai farsi venire un’idea) a Wanna Marchi, che rivendicava il proprio primato di truffatrice.
La Stampa aveva un pezzo, scritto spero da una quindicenne, sul dramma di noialtri che alla favola ferragna avevamo creduto (ma noialtri chi?). Ma il pezzo più esemplare dell’incapacità dei giornali di coprire un fatto anche se hanno deciso che quel fatto sia importantissimo era sul Corriere.
Chiara, annunciava vibrante il Corriere, non esce di casa da giorni. Fonte, una giornalista di moda d’un tg che ha parlato con un amico della Ferragni. Il Corriere non lo dice, quindi non sarò certo io a svelare che l’amico è un p.r. della moda, il primo che invitò la Ferragni alle sfilate quando ancora era un reietta e non la celebrità principale d’un paese tragicamente privo di star system. Il nome, se riesce a reperirlo, ve lo dice il Corriere; io ci tengo a trascorrere il mio cinquantunesimo Natale senza aver mai, mai, mai dato una notizia.
Non sarò quindi certo io a dirvi che veramente i Ferragni sono in partenza per la montagna, giacché nella diatriba in cui a «non è il caso che ci paparazzino sciando» si contrappone «io non ho mica ammazzato nessuno che devo stare chiusa in casa» ha vinto la mozione festeggiare il Natale come quasi niente fosse. Torniamo a quel che non c’era sui giornali.
Da nessuna parte c’era la tata dei bambini Ferragni, e la sua storia Instagram di ieri, con l’eloquente testo «Sui cadaveri dei leoni festeggiano i cani credendo di aver vinto. Ma i leoni rimangono leoni e i cani rimangono cani». (Che abbia postato la frase in risposta alla Stampa che diceva che Ferragni non viene difesa da quelli del suo giro? I giornali non li legge nessuno, ma magari li leggono le tate boliviane).
Se quella su cani e leoni vi sembra una frase di Giorgia Meloni, è perché potrebbe benissimo esserlo: come ho già scritto un milione di volte, Giorgia Meloni è la più ferragna delle politiche, ha un talento da influencer strepitoso, e fa ridere che i commentatori si siano concentrati sulla sua battuta sui panettoni non benefici durante il discorso di chiusura di Atreju, come se lei e la Ferragni fossero arcinemiche, e non concorrenti al titolo di influencer della nazione.
Da nessuna parte, tra i giornali che ho visto, c’era una ricostruzione del dramma casalingo. Natale è difficile per tutti, tra parenti acquisiti insopportabili e dubbi sul menu (in casa Ferragni suppongo verrà per quest’anno accantonata la domanda «pandoro o panettone?»).
L’atmosfera coniugale, nella casa delle pandorità, quest’anno ha iniziato a essere malmostosa ben prima di cominciare ad apparecchiare o a controllare d’aver fatto tutti i regali. Il malumore sarebbe nato per colpa dell’Antitrust, giacché pare sia dalla loro decisione che il marito della Ferragni ha appreso le cifre dell’affaire pandoro, ignaro fino a quel momento che la moglie avesse incassato un milione a fronte d’una donazione (fatta da Balocco) di cinquantamila micragnosi euro.
Al cui proposito, la terza cosa che non trovo sui giornali è: qualcuno è andato a chieder conto a Balocco? A Balocco che ha dato un milione alla testimonial e cinquantamila ai bambini malati? C’è una scuola di pensiero molto interessante, sui social, che dice che assolutamente bisogna evitare ogni ritorsione contro Balocco perché, se le vendite calano sotto Natale, poi gli operai finiscono in cassa integrazione. E ai dipendenti della Ferragni nessuno ci pensa? Lei può invece venire boicottata mettendo in pausa la coscienza marxista?
Ma torniamo agli umori coniugali ferragnici. Dicono che sia stato il marito a costringere (o almeno convincere) la Ferragni a fare una donazione finalmente munifica, e ad assumere un consulente che le facesse fare il discorso contrito. Dicono che a mediare i malumori coniugali sia il padre del marito. Dicono anche che, in occasione della faccenda pandorica, il marito abbia tentato il colpaccio.
Come i giornali si sono buttati sul Watergate dolciario, il marito ferragnico avrebbe mirato anche lui al bersaglio grosso: il licenziamento del principale esponente dello schieramento ferragnico, il collaboratore cui Chiara più s’affida, con cui il marito da sempre non va d’accordo e che questa volta, combinando questo pasticcio, gli ha offerto un’occasione se non d’oro almeno di zucchero a velo.
Ora tu questo lo cacci, avrebbe detto il marito, e la moglie avrebbe pure eseguito, senonché – senonché niente, per ora la cosa pare essere finita a tarallucci e vino (cantucci e vin santo, forse: più natalizio), ma le ragioni non sarò certo io a dirvele: le notizie non le dà chi è pagato per farlo, figuriamoci se ve le do io che sono pagata per stare sul divano a guardare “Parenti serpenti”, senza cognate, senza dolci orrendi ed economici, senza Instagram.
Figuriamoci se sono io a dirvi se il prodotto terrorizzato dalle ritorsioni e quindi in procinto di mollare la testimonial è il cashmere, o lo shampoo, o la bibita gassata. Fossi Chiara Ferragni, chiederei alle tre aziende la cortesia di far partire il comunicato tra un giorno o due. Se la tua rovina commerciale avviene nei giorni in cui non escono i giornali e siamo tutti impegnati a guardare in tv la rovina dei fratelli Duke causata da Eddie Murphy e Dan Aykroyd, se la tua caduta nessuno la mette in prima pagina, è avvenuta davvero?