Anatomia di una cultura L’impresentabilità di Sangiuliano e il paese senza società di Arbasino

Il nostro problema è il popolo italiano, non il governo di destra né le sue nomine nelle istituzioni culturali. Basta aprire “Fratelli d’Italia” (il romanzo, non il partito) per ricordarsi che tanti anni fa uno bravo aveva già detto tutto quel che c’era da dire

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In una canzone pubblicata giusto trent’anni fa, Lorenzo Jovanotti scriveva «Se tutti i grandi libri qualcuno li ha già scritti, se tutte le grandi frasi qualcuno le ha già dette, se tutte le grandi canzoni le hanno già cantate, mi chiedo ragazzi voi che cosa fate?».

Non sento quella canzone forse da ventinove anni, ma il mio inconscio deve averla memorizzata perché già allora sapeva che poi sarei diventata una di quelle vecchie trombone che vedono un comunicato sulle vendite della Morante e pensano ma com’è possibile che gli italiani siano così capre da aspettare Rai1 per leggere “La storia”, se già la Ginzburg cinquant’anni fa ne spiegava la natura di romanzo popolare che è scritto per gli altri mentre ormai – cinquant’anni fa! – «i romanzieri scrivono unicamente per sé»: neanche i romanzi popolari, leggete, se non vi arrivano dalla tv? Così strenuamente analfabeti, siete?

Una di quelle vecchie trombone che leggono un articolo di Nicola Lagioia e pensano «sì ma Arbasino scriveva che». Una di quelle vecchie trombone cui il ventisettenne Jovanotti ricordava «Ma io non sono Mozart, e tu non sei Picasso, io son Lorenzo e Saturnino sta suonando il basso: apprezzo ciò che è stato, e ne farò tesoro, ma ancora c’è da farne di lavoro».

È andata così. Che ieri, su Lucy, Nicola Lagioia ha scritto un articolo sulla pochezza dell’attuale ministro della Cultura italiano, e io leggevo e pensavo: ma se la cultura italiana è così asfittica il problema sarà chi è ministro? Ma quindi Franceschini era Umberto Eco? Se il ministro non fosse stato di destra, se la destra non fosse di destra, la polemica sulla direzione dei teatri di Roma sarebbe meno ridicola?

Naturalmente no, e Lagioia lo sa e lo dice: «Ma: è questo fallimento una prerogativa della destra? È tutta colpa di Sangiuliano? Risposta: no». Ma quindi che senso ha scrivere della pochezza del ministro della cultura, se tutti sappiamo che il problema della cultura italiana è il suo essere italiana?

Ovunque gli intellettuali danno la colpa alla politica. “Anatomia di una caduta” prende cinque importanti candidature agli Oscar, tra cui quella a miglior film, e la polemica francese è: colpa di Macron se non ha quella a miglior film straniero (della candidatura come film straniero, un film candidato a miglior film assoluto non so bene cosa se ne faccia: forse quel che una miss Mondo fa della fascia di miss Molise).

Un anno fa, la polemica degli intellettuali inglesi era contro Sunak che aveva detto di volere che gli scolari inglesi studiassero matematica fino alla fine delle superiori: scandalo, oltraggio alle materie umanistiche, sottovalutazione della storia e della letteratura e dell’arte e di tutto ciò che ci ha fatto grandi nei secoli. O magari vaste programme di mandare nel mondo gente che sappia leggere una statistica (ma anche meno: avete mai provato a cambiare banconota quando il registratore di cassa ha già detto a un cassiere che resto debba darvi con la cifra che gli avevate offerto precedentemente, e a osservare il panico d’un adulto che non sa improvvisare una sottrazione?).

Lagioia parlava degli investimenti culturali e del fatto che la mostra di Rothko che c’è a Parigi noi qui ce la sogniamo, e a me venivano in mente due cose. La prima: i giovani ecologisti analfabeti che imbrattano l’albero di Natale di Gucci in Duomo al grido «Gucci non aiuta i poveri italiani», tragicamente inconsapevoli che Gucci faccia parte d’una multinazionale francese del lusso.

L’associazione di idee attiene al dettaglio che la mostra di Rothko per andare a vedere la quale s’incomoda tutto il ceto medio complessato mondiale, da Gwyneth Paltrow a Paolo Repetti, è alla fondazione Vuitton: c’entrerà più il ministro della cultura francese, o il mecenatismo che da sempre fanno i ricchi? Solo che i ricchi francesi organizzano scintillanti mostre riflessive; i ricchi italiani danno due spicci agli ospedali e grassi cachet alle ragazze famose che possano far sapere a tutti che loro sono buoni e danno due spicci agli ospedali.

La seconda cosa che mi veniva in mente, spero che il Jovanotti d’epoca mi perdoni, è Arbasino. Quando devo commentare un fatto del presente, io in genere apro una pagina a caso di “Un paese senza”, che è un libro del 1980 il cui ruolo in questo secolo è dimostrarmi ogni giorno che mi sbaglio a pensare che il mondo sia così cambiato che non lo si possa interpretare con la letteratura prodotta prima che cambiasse.

Purtroppo nella casa in cui mi trovo mentre scrivo queste righe non c’è una copia di “Un paese senza”, ma per fortuna c’è una copia del 1993 di “Fratelli d’Italia”, il romanzo che Alberto Arbasino pubblicò per la prima volta nel 1963, quando il titolo era quello dell’inno nazionale e non ancora il nome del partito di governo.

Per fortuna a chiarire che il problema culturale dell’Italia sono gli italiani ci ha pensato uno bravo una vita fa, così noialtri medi del presente possiamo limitarci a ricopiare.

«Il fascismo è sempre stato piccolo-borghese, non ricominciamo a ripetere le solite solfe sul sacrario degli arditi e sull’ossario dei militi! Il Littorio e i gerarchi sono cose che possono venire in mente solo a impiegati da mille lire al mese, non “stomping at the Ritz” o “waltzing at the Savoy”».

Per fortuna la quantità di testi di Arbasino che mi dimostrano che le polemiche culturali sono sempre identiche tende a infinito, e quindi posso ricopiare qui la risposta che non sapeva d’aver dato a Lagioia – meglio: la versione arzigogolata di ciò che dice anche Lagioia quando dice che Sangiuliano non è la causa del disastro ma il prodotto d’un sistema; le righe che inserisco subito nel fascicolo “maledizione, perché non le ho scritte io”.

«In Francia e in Inghilterra, se stanno meglio, sarà perché le generazioni si trasmettono diverse specie di cultura, di mano in mano, e ci vivono dentro, su una piattaforma comune, senza doversi imparar l’alfabeto ogni volta. Il padre o il nonno hanno comunque una loro cultura, magari inaccettabile dai figli, però non meno dignitosa: i classici alle spalle sono gli stessi, e sono stati letti».

Due pagine dopo, giacché mi piace infierire su di noi nascondendomi dietro Arbasino, e anche prendere atto della mia inutilità avendo lui già descritto perfettamente la distanza tra il British Museum e le Scuderie del Quirinale: «Si sa che esiste una società. C’è almeno da un secolo una upper middle class, di cui una certa sezione è “illuminata”, sta dalla parte del progresso, e non pensa solo a mangiare, sfruttando gli altri. Dietro Proust, dietro la Woolf, dietro Musil, la si vede benissimo. Non te la devi inventare come qui da noi, ipotetica, la classe che paga le imposte, legge libri, vive con dignità in case non volgari, e prima del teatro di Wilde o di Shaw produce le istituzioni e le convenzioni su cui si regge, gli attori capaci di recitarlo senza lo sforzo per “fare gli inglesi” come i camerieri, un pubblico in grado di intenderne i sensi… Già il bisnonno, eventualmente, portava le scarpe, esercitava una professione liberale, tossiva a teatro dentro il fazzoletto e non a bocca libera… Magari non aveva alle spalle Cesare Augusto e Lorenzo il Magnifico, ma a cosa servono i Fasti, quando ogni generazione è la prima e deve incominciare a imparare tutto, dalle lingue moderne alle posate a non pulirsi il dietro col vecchio dito come si è sempre fatto dalla grotta primigenia fino agli anni Cinquanta circa».

Vorrei passare la giornata a ricopiare stralci di “Fratelli d’Italia”, a chiedermi cos’accadrebbe oggi a un intellettuale rispettabile che scrivesse che gli appunti carcerari di Gramsci sono un “Bouvard e Pécuchet” senza senso del tono (probabilmente verrebbe espulso dalla società civile come un Sangiuliano qualunque).

Ma forse basta l’inizio di quel paragrafo quissù: si sa che esiste una società. Se il problema dell’Italia non fossero i Bondi e i Sangiuliano, non fosse l’impresentabilità culturale della destra, non fosse quella costante d’ogni conversazione privata sulle nomine – sì, ma d’altra parte, poveretti: chi ci devono mettere? – se il problema fosse invece che quella Thatcher lì, quando molti anni fa diceva che «there’s no such thing as society», parlava di noi? Se il problema fosse che non solo tutte le grandi frasi qualcuno le ha già dette, ma noi non le abbiamo capite?

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