A dicembre il governo e il parlamento della Norvegia hanno trovato un accordo per autorizzare l’esplorazione dei fondali artici alla ricerca di metalli per la transizione energetica: cobalto per le batterie, terre rare per le turbine eoliche, rame per i cavi elettrici. Le attività si svolgeranno in un’area grande quasi quanto l’Italia situata tra il mare di Barents e il mare di Groenlandia, vicino alle isole Svalbard, che dovrebbe ospitare ricchi depositi.
La Norvegia vuole essere la prima Nazione del pianeta a estrarre minerali dai fondali su scala commerciale, e garantisce di farlo in modo «responsabile e sostenibile». La sostenibilità promessa non vuole essere solo ambientale, ossia di attenzione all’ecosistema, ma anche politica: Oslo pensa – e non è l’unica a farlo – che il seabed mining permetterà all’Occidente di ridurre la dipendenza dalla Cina, che oggi domina le filiere di pressoché tutte le materie prime per l’industria verde.
Ma ci sono dei dubbi. Innanzitutto, il piano norvegese piace al comparto oil & gas, che ci vede un’occasione di riconversione. Non piace però al settore peschiero, che teme ripercussioni sull’abbondanza ittica delle acque del nord; e non piace nemmeno agli ambientalisti, preoccupati per un impatto non ancora chiaro.
C’è infatti chi sostiene che l’estrazione mineraria sottomarina sia meno “distruttiva” di quella sulla terraferma perché nei fondali la vita è scarsa (rispetto, poniamo, alla ricchezza di una foresta indonesiana contenente nichel). D’altro lato, c’è chi ricorda che sappiamo poco del fondo del mare e quindi non possiamo giudicare correttamente i danni alla biodiversità.
Oltre a riproporre l’antico dissidio tra natura e sviluppo – per abbattere le emissioni avremo bisogno delle miniere –, la proposta norvegese di seabed mining rischia di riaprire questioni geopolitiche mai risolte: Oslo sostiene di avere i diritti esclusivi di sfruttamento delle acque intorno alle Svalbard, ma l’Unione europea, il Regno Unito e la Russia non sono d’accordo.
Lontano dal nostro continente la situazione di conflittualità è grossomodo la stessa. Per l’estrazione dai fondali si sta combattendo nel mondo una battaglia normativa e diplomatica che ha nell’Isa (l’International seabed authority, un ente affiliato alle Nazioni unite con sede in Giamaica) il suo teatro principale. Un gruppo di Paesi, come la Norvegia e la piccola repubblica insulare di Nauru, spinge per procedere; un altro, che ha Francia e Regno Unito tra le sue fila, fa resistenza.
Il seabed mining a livello commerciale dovrebbe iniziare nel 2025, una volta che l’Isa avrà definito un codice di regole. Delle trenta licenze di esplorazione concesse finora dall’organizzazione, cinque sono state assegnate alla Cina: nessun altro Paese ne ha così tante. Tra qualche anno, dunque, Pechino avrà l’esclusività di estrazione su un’area totale estesa grossomodo quanto il Regno Unito. Ma il permesso apparentemente più fruttuoso riguarda una porzione dell’oceano Pacifico chiamata zona di Clarion-Clipperton, sul cui fondo sono depositate tonnellate di grumi rocciosi grandi come patate – in gergo si chiamano noduli polimetallici – contenenti nichel, cobalto, manganese e rame.
La concentrazione di metalli critici in questi noduli sembra essere molto superiore a quella dei minerali estratti sulla terraferma. Li si porta in superficie, sulle navi, facendoli aspirare da grandi robot: anche se non c’è trivellazione, il movimento dei macchinari e la dispersione di sedimenti possono comunque rivelarsi letali per gli organismi che abitano gli abissi.
Per perpetuare il controllo sui metalli critici e impedire la nascita di filiere alternative, la Cina vuole essere la protagonista del seabed mining, accaparrandosi licenze e influenzando la regolazione a proprio vantaggio. Si capisce quindi perché Pechino dedichi così tante attenzioni all’Isa: è stata una delle prime Nazioni a inviare una delegazione permanente, ne è la maggiore contribuente al bilancio e ha ottenuto la nomina di suoi cittadini negli organismi amministrativi dell’organizzazione.
Ma, come ha scritto il Washington Post, l’interesse della Cina va oltre le materie prime: l’esplorazione dei fondali è per lei anche un mezzo per rifondare l’ordine internazionale secondo i suoi princìpi e, in ultima istanza, per diventare una potenza marittima in grado di sfidare l’America anche in questo dominio.
Scandagliando le acque alla ricerca di noduli, la Cina potrà infatti studiare i fondali e le correnti e utilizzare questi dati per sviluppare apparecchiature militari in grado di operare ad alte pressioni e in scarsa visibilità. E potrebbe anche, contravvenendo al diritto internazionale, avventurarsi nei territori altrui per raccogliere informazioni. Lo sta già facendo, in realtà: da qualche anno diverse navi cinesi per l’esplorazione oceanica si sono avventurate senza permesso nelle zone economiche esclusive delle Filippine, della Malesia e perfino degli Stati Uniti.
Il problema di Washington è che non fa parte dell’Isa ma è solo un osservatore (non ha mai ratificato la Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare), quindi non possiede alcun contratto esplorativo né può partecipare al dibattito sulle regole. La partita con Pechino non è persa in partenza, però, perché gli americani possono contare su due cose: su vaste acque territoriali nel Pacifico da sfruttare e ottimi rapporti con diversi membri dell’Isa (a partire dal Canada) che gli permettono di influenzare indirettamente i negoziati.
Proprio in Canada ha sede l’azienda più attiva nel seabed mining. Chiamata semplicemente The metals company, sta esercitando pressioni sull’Isa affinché autorizzi in fretta l’estrazione ai fondali: ha dalla sua parte la piccola repubblica insulare di Nauru, che spera di prosperare grazie alle ricchezze della zona di Clarion-Clipperton. The metals company può contare su tecnologie avanzate, a differenza delle società cinesi.
«Alcune Nazioni occidentali hanno padroneggiato le tecnologie chiave e la capacità di realizzare i principali componenti necessari per l’estrazione in acque profonde […]. La Cina, invece», ammetteva il quotidiano statale China daily, «è in ritardo in termini di conoscenza, tecnologia e hardware, il che evidenzia l’importanza dell’attenzione e degli investimenti del governo».