«Ho pensato che se veniva offerto “L’uccellino Tic Tic” sbadatamente e senza attribuirgli importanza, e se era lecito aspettarsi da questa collana per l’infanzia libri di ogni natura e di ogni specie, bene, ma se veniva presentato “L’uccellino Tic Tic” con dietro un programma pedagogico e come bibbia delle nuove generazioni, allora “L’uccellino Tic Tic” io lo trovavo rivoltante».
Ogni volta che qualche amica mi dice di dover scrivere di qualche fatto di costume del momento, e se non ho mica un’idea sul tema da imprestarle, io allungo un braccio verso “Vita immaginaria”. “Vita immaginaria” è una raccolta del 1974, e dentro ci sono alcuni degli articoli che Natalia Ginzburg ha scritto nei cinque anni precedenti sul Corriere e sulla Stampa. Dentro c’è già tutto, e infatti io stessa l’ho già saccheggiata qui riguardo alla poesia e probabilmente altre volte che non ricordo. Considerato che sono articoli scritti più di cinquant’anni fa, ci si chiede come facciamo noialtre che ci arrabattiamo a parlar del mondo a trovare modi sempre nuovi di dire le solite quattro cose.
Solo questa settimana, per dire, ho suggerito a un’amica che doveva scrivere di “La storia”, la serie di Francesca Archibugi, l’articolo sul romanzo di Elsa Morante che Ginzburg pubblicava nel 1970: chissà se quello dei corsi e ricorsi intendeva questo, che cinquant’anni dopo sarebbero tornate buone come nuove le recensioni di prodotti culturali.
Quindi, quando mi sono trovata i social pieni della polemica più noiosa del mondo – Paola Cortellesi confonde stereotipi e archetipi, puntesclamativo; Paola Cortellesi non ha letto Propp, ripuntesclamativo; Paola Cortellesi dice che nelle fiabe gli uomini vanno in giro e le donne si fanno belle, sessista peggio del marito del suo film, treppuntesclamativi – ho pensato: ah, c’è una Ginzburg anche per questo.
Era una Ginzburg del 1972, io non ero ancora nata e Paola Cortellesi neppure, e insolentiva una nuova collana Einaudi che si chiamava “Tantibambini” ed era diretta da Bruno Munari. E qui potrei partire con una tirata di celeste nostalgia per quando non era ancora inventata quell’imbecillissima parola che è «hater» e la Ginzburg poteva dire che una collana Einaudi le pareva una puttanata continuando a lavorare all’Einaudi. Ma senza andare così indietro: quando le ridicolaggini della sinistra le sottolineava Edmondo Berselli su Repubblica, mica qualcheduno in quota alla destra su qualche tabloid letto dai commercialisti di Varese.
Ma non divaghiamo, e torniamo a “L’uccellino Tic Tic”, «la storia d’un bambino che ha paura del lupo, ma l’uccellino Tic Tic dà da mangiare al lupo, gli dà molte cipolle, teste di sardine e scarpe vecchie, il lupo non ha più fame e diventa buono, il bambino non ha più paura. Una storia graziosa». La ferocia con cui la Ginzburg usa l’aggettivo «graziosa» mi consuma d’invidia.
A innervosire la Ginzburg era stata la quarta di copertina, su cui si leggevano parole in linea con quel che avrebbe detto Paola Cortellesi alla Luiss. Il condizionale è perché chiunque conosca un po’ i giornalisti italiani sa quanta tara vada fatta ai virgolettati. Nella conferenza stampa d’inizio anno, Giorgia Meloni ha detto di essersi trovata virgolettata, sulla vicenda Verdini, parole che non aveva mai detto neanche in privato, e il giorno dopo a nessuno è parso di dover registrare lo scandalo: le virgolette, mi disse una volta un giornalista italiano, sono un patto col lettore, lui sa che non è stato detto proprio quello. Invero incredibile che i lettori italiani si siano estinti.
Insomma, la Cortellesi si sarebbe messa a fare la moralina alle fiabe, la moralina contro il sessismo (ma non era un monologo che faceva decenni fa in un varietà? Mi confondo o è sempreverde tipo la Ginzburg? Il discorso alla Luiss è forse parte d’una tournée di grandi classici?).
Sulle quarte di copertina del 1972, riferisce la Ginzburg, c’era scritto così: «Fiabe e storie semplici, senza fate e senza streghe, senza castelli lussuosissimi e principi bellissimi, senza maghi misteriosi, per una nuova generazione di individui senza inibizioni, senza sottomissioni, liberi e coscienti delle loro forze». Sembra il manifesto programmatico dei rivoluzionari di Instagram, salvo poi passare le giornate a guardare i castelli lussuosissimi a scrocco e a farsi venire l’invidia del lusso usurpato.
«La morale dell’“Uccellino Tic Tic” è che bisogna dar da mangiare ai lupi perché così diventano buoni. Non è vero. Chi l’ha scritto ha pensato che è bene demistificare agli occhi dei bambini l’idea del lupo. Però i lupi esistono. Si possono sfamare quanto si vuole, restano lupi e usano mangiare gli uomini. Oltre ai lupi, esistono persone che assomigliano ai lupi e il mondo ne è pieno». (Povero Giambruno: citava la Ginzburg, e noi eravamo troppo ignoranti per capirlo).
Dunque Paola Cortellesi – che, un po’ come Chiara Ferragni, era in un momento d’eccessivo successo e non poteva che toccarle un linciaggio – avrebbe detto agli studenti della Luiss «siamo sicuri che, se Biancaneve fosse stata una cozza, il cacciatore l’avrebbe salvata?». Certo che no. Tra una cozza e una caruccetta, il cacciatore correrà a salvare quella caruccetta, nella riedizione della vecchia pubblicità della Dolce Euchessina, in cui ai bambini non buoni toccava spingere. Oggi sanzionerebbero lo slogan che invalida (scusate il doppiaggese) l’identità dei bambini non buoni.
Quando avevo vent’anni, lamentai al mio analista che un’impiegata delle poste fosse stata scortese e sbrigativa con me, e molto più gentile con un altro tizio in fila. Un analista di oggi incoraggerebbe la mia convinzione che quello dell’impiegata fosse stato patriarcato interiorizzato e sessismo sistemico e sarcazzo arcaico. Per fortuna trent’anni fa gli analisti potevano ancora essere non del tutto imbecilli, e quello alzò uno strafottente sopracciglio e mi disse: mi faccia capire, lei auspica un mondo privo dell’elemento della seduzione?
Certo, direbbero sui social, ma solo le donne per essere degne d’esser salvate devono essere decorative, agli uomini si chiede d’essere dei geni o di saper costruire una scialuppa o altre doti meno superficiali. Figlie mie: che sollievo. Non so a voi, ma a me viene più facile farmi la messinpiega che risolvere un’equazione.
Forse Paola Cortellesi non lo sa, perché è abituata a sé stessa e alla propria spaventosa quantità di talento, ma il mondo è pieno d’individui senza qualità, maschi e femmine. A parità d’assenza d’intelligenza notevole, rendersi caruccette e avere un qualche valore di mercato è proprio alla portata di tutte: ti pare un vantaggio da poco, rispetto al povero maschio la cui decoratività è valuta minorissima?
Essere caruccette è il modo in cui proprio tutte, da Biancaneve fino a mia madre, hanno nei secoli trovato qualcuno che le mantenesse. Non essere cozze è un welfare, mica un dettaglio da liquidare con tanto sprezzo.
Ed è un elemento di mancata parità a svantaggio degli uomini. Se pensate che la società sia benevola con gli uomini che nella coppia sono la parte meno intelligente, meno in carriera, meno capace di provvedere alla moglie e alla prole, fatevi raccontare la fiaba di Giambruno, che spero Einaudi raccoglierà presto in volume con una quarta di copertina altamente pedagogica.