Tra rivoluzione ed evoluzione Il Banksy dell’intelligenza artificiale

Tutti parlano di Jean Jacques Balzac, l’artista anonimo che, abbinando le tecnologie informatiche all’architettura, ha raccolto l’interesse della critica internazionale per la sua pagina Instagram da decine di migliaia di follower: «Ma io sono un uomo rinascimentale», ci racconta

Arabian Dyptich, Jean Jacques Balzac

In un momento dove ogni cosa appare effimera e vulnerabile, la realtà stessa è quanto mai labile. L’essere umano sembra schiavo della propria storia e dello sviluppo, che rischia di portarlo all’annientamento e all’estinzione: non solo il cambiamento climatico, ma anche la sovrappopolazione, le guerre, i diritti umani violati, e ora persino la tecnologia informatica diventa un’arma di orwelliana memoria. L’intelligenza artificiale ha così fatto il proprio ingresso in ogni campo della nostra via e perciò anche nell’arte.

Tra i tantissimi “nuovi profili” e le tantissime pagine di architetture impossibili, quella di Jean Jaques Balzac stupisce per l’impostazione e i forti rimandi alla storia dell’architettura e del design, mostrando come il “creatore” dell’arte abbia ancora un ruolo di primo piano nel processo artistico. D’altronde, l’intelligenza artificiale, in assenza – per ora – di una propria “auto-coscienza”, sembra o dovrebbe essere il nuovo pennello, uno strumento nelle mani dell’artista, che diventa “la mente della mente”. Siamo in fondo così sicuri che anche Jean Jaques Balzac non sia in ultima istanza anch’esso un homo faber anche lui?

Non può essere un caso nemmeno che il “cognome d’arte” attribuitosi sia Balzac con un chiaro riferimento al “réalisme visionnaire” del maestro del romanzo francese Honoré de Balzac che con la sua prosa La Commedia umana voleva far concorrenza allo stavo civile. Cos’è dunque reale? Chi è l’artista e di cosa si occupa? Abbiamo scelto di cercare delle risposte insieme all’artista e di farci raccontare la “sua arte”. L’abbiamo scelto per la sua capacità di unire le competenze informatiche con l’impatto estetico proprio di un architetto, con una nota dissonante, quasi distopica, che pervade tutte le immagini create: il risultato è accattivante, senza mai risultare troppo drammatico, basato più sul possibile paradosso che su un modo apocalittico.

If a play is good is it better to be player or spectator, Jean Jacques Balzac

Si comprende di essere di fronte all’inizio di una storia artistica, cominciata bene, ma nella totale inconsapevolezza, con un’ironia che difende forse più dell’anonimato il non avere/non riuscire/non volere avere una chiara visione del proprio “essere” artista. “Jean Jaques” stesso ci racconta come «tutto è iniziato a maggio del 2023. Ero annoiato sul treno di ritorno a Parigi. È più una rivoluzione che un’evoluzione». Decine gli articoli e le interviste, ma mai nessuno ha cercato di sviscerare la questione di fondo, al di là dell’anonimato, concetto già visto e stanco nell’arte. Tra un volo e un cenone natalizio, ci siamo sentiti e confrontati via chat su Instagram, per poi fissare le idee e l’intervista con una “classica” email ricapitolativa.

Cominciamo subito con una provocazione: cosa pensi dell’homo faber alla base dell’arte contemporanea, così centrale in questa rubrica e nel mio stesso modo di approcciare l’arte?
Esiste un luogo dove posso vedere l’homo faber? Se homo faber è l’uomo degli strumenti questo nuovo strumento è simile a qualsiasi altro utilizzato in precedenza o c’è qualcosa di profondamente nuovo? Riflettere sulla posizione dell’arte in relazione a un nuovo strumento o a più mezzi di espressione è quanto mai attuale nella storia dell’umanità e dell’arte. Se pensiamo all’arte attraverso la storia, l’espressione artistica è sempre stata legata a determinate abilità e riflessioni interne: dalle pitture rupestri fino all’inizio del ventesimo secolo, gli oggetti d’arte erano direttamente dipendenti alle abilità personali di qualcuno, che di solito le eseguiva a mano. La modernità ha cambiato questa nozione tradizionale dell’arte e ha posto la vita umana al centro, dove tutto e niente poteva essere arte.

Money never sleeps, Jean Jacques Balzac

Cosa sta succedendo ora di così diverso rispetto al passato?
Quello che sta accadendo da qualche anno è che tutta l’esperienza umana, o ciò che è finora stato digitalizzato – come immagini, scritti, musica – va a formare una sorta di “cervello collettivo”. E, cosa ancora più importante, questa mente è accessibile anche da un semplice telefono cellulare. Le immagini che pubblico su Instagram sono costruite su questa conoscenza collettiva sul mio telefono. In questo senso, la creazione di immagini, musica o testo con l’aiuto di modelli informativi è un nuovo modo di accedere all’intera esperienza umana. Del resto, l’uso della conoscenza altrui è alla base del progresso umano e del successo su altre entità, e lo stesso si applica all’evoluzione dell’arte o del design. Ed è stato ripetutamente fatto ogni giorno lungo tutta la storia umana.

Quindi nulla di così diverso dall’evoluzione fino ai giorni d’oggi?
La differenza principale oggi è che questo scambio o trasmissione di informazioni è istantaneo. Non è più necessario imparare le competenze tecniche necessarie per continuare da dove qualcuno si è fermato. Dobbiamo però considerare che, anche se questo nuovo strumento è estremamente potente ed evolve quasi quotidianamente, ci sono limitazioni nella creazione di qualcosa di nuovo. Per capire, dobbiamo guardare al modello informativo che detiene i modelli della nostra esperienza, che ci consente di creare nuovi contenuti, ma allo stesso tempo governa, e perciò limita, ciò che è possibile fare. È una sorta di replica del nostro mondo. Quindi, la vera creazione di qualcosa di nuovo proviene oggi dalla persona che fornisce gli input. Il processo creativo contemporaneo ha diversi passaggi, ma la parte cruciale è sapere cosa cercare o avere già qualcosa in mente prima dell’inizio di questo processo, il desiderio di ciò che si ricerca. Certamente questo strumento dà un potere incredibile, ma a lungo termine vediamo che è comunque e inevitabilmente un essere umano a guidarlo.

photo by Jean Jacques

Mantenendo l’anonimato, puoi dirci di più sulla tua formazione: hai studiato arte informatica, design o architettura?
Sono un architetto anche nella vita quotidiana. Ho però fatto anche qualche esperienza in design industriale e fotografia amatoriale. Questa nuova pagina – Instagram e della mia vita – è un modo per divertirmi e contemporaneamente esplorare nuove possibilità. E quindi riassumendo, in generale, sono una persona che ama tutto ciò che è legato alle opere visive.

Non è quindi un caso che l’architettura sia in punto di partenza della tua immaginazione: c’è un maestro che influenza di più il tuo approccio?
Non c’è un architetto particolare che vorrei menzionare, ma forse più un progetto: le piscine di Leca, di Alvaro Siza. C’è qualcosa di veramente potente nell’integrazione di un bacino di una piscina astratto nella costa rocciosa irregolare. Amo l’intersezione tra le rocce naturali e un bacino artificiale, ma anche l’acqua in sé, come qualcosa di vivo. Sono questi semplici gesti che mi interessavano soprattutto all’inizio, ma in seguito mi sono interessato maggiormente all’esame di soggetti architettonici in generale, cercando di rimanere in stretta prossimità con la nostra realtà, ma anche, come hai notato, offrendo qualche altra possibilità.

photo by Jean Jacques

Consideri il tuo lavoro un’opera d’arte?
Ovviamente mi fa sorridere la domanda: penso di non essere la persona giusta a cui chiedere questo, ma amo e ci sono alcune idee che erano dietro alcune immagini.

Quindi non lo neghi: se non artista, come ti definisci?
Potrei definire le mie immagini artistiche per natura e riguardo a me stesso, sono un uomo rinascimentale.

Stampi e vendi le tue immagini o sono solo digitali, ovvero: come ti posizioni sul mercato dell’arte?
Finora c’è stata una crescente domanda da parte di persone con background diversi di acquistare le mie immagini, sia come opere digitali sia stampate. La realtà è che non ho avuto il tempo di organizzarmi e riflettere su come affrontare la situazione.

photo by Jean Jacques

Come nasce una nuova tua opera?
Non ci sono regole, sono più legato al processo: fondamentalmente cerco di sovrapporre soggetti interessanti. Come il confronto sintetico tra storia e tecnologia, futuro e ornamento, malinconia e spiaggia. Tutto visto ovviamente attraverso alla lente dell’architettura. E poi vedo cosa succede, l’unico vincolo è che non può richiedere troppo tempo, deve venire dall’istinto, senza troppo pensare. Ci sono opere che sono diventate serie: se l’idea è interessante da sviluppare, vado avanti; è il caso di Arabian Dyptich, perché è un lavoro che usa l’architettura per indagare il legame tra passato e futuro, tra la nostra società e lo sfruttamento del petrolio, o meglio la dipendenza da esso. Sintetizzo così una riflessione sul progresso che è anche decadenza economica e ambientale.

A livello di apparato teorico, se c’è, nel tuo lavoro leggo una nota distopica orwelliana: mi sbaglio?
Non ci ho mai pensato. Nelle mie immagini c’è qualcos’altro, ma di solito non lo formalizzo come non codifico ciò che faccio. Piuttosto penso che il mondo presentato nelle mie immagini riguarda meno la perdita di libertà e più la perdita di una coscienza e consapevolezza del cambiamento: con il mio lavoro racconto che non c’è un’idea chiara di cosa stiamo per fare e perché, e se è giusto. Siamo prigionieri della nostra collettività senza saperlo e senza averne una guida. In fondo questi nuovi strumenti che io impiego sono un perfetto esempio di come la nostra evoluzione non è mai stata nelle nostre mani.

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