Giorgia Meloni definisce «incrollabile» il sostegno dell’Italia all’Ucraina nella resistenza all’aggressione russa. Nella sua maggioranza invece non è altrettanto incrollabile per la parte leghista, mentre Forza Italia è seriamente allineata alla linea del Partito Popolare europeo contro Mosca. Per sua fortuna la premier non deve passare dal Parlamento per ratificare l’accordo decennale, sottoscritto il 25 febbraio, sulla sicurezza di Kyjiv. Un accordo non vincolante, quindi, che comunque ha una valenza politica forte, senza dubbio, anche perché fatto mentre Roma guida pro tempore il G7 e la presidenza del Consiglio tiene dritta la barra della sua maggioranza sulla rotta atlantica. Per il momento. Nella capitale ucraina, accanto a Volodymyr Zelensky la premier ha fatto dichiarazioni impegnative, ha definito quella terra un pezzo della nostra casa (noi faremo la nostra parte per difenderla), ha considerato un’ipocrisia parlare di pace quando di fatto si chiede al popolo ucraino la resa.
Dopodiché ci sono aspetti di questo accordo che non convincono, e non tanto perché arriva dopo quello sottoscritto da Germania, Francia, Gran Bretagna e Danimarca. L’importante è esserci agli appuntamenti che impegnano il nostro Paese nel momento miliare più difficile per Kyjiv. Ma si tratta di un impegno senza il relativo sforzo finanziario. Nel documento sottoscritto è previsto che i costi «saranno coperti» dalle due parti «in accordo con il budget ordinario disponibile, senza alcun costo aggiuntivo per il bilancio dell’Italia e dell’Ucraina».
Per il momento dunque basta il resoconto contabile degli aiuti che l’Italia dato – dall’inizio della guerra ha sostenuto l’Ucraina a vario titolo con oltre due miliardi di euro. Inoltre, viene ricordato, ha fornito all’Ucraina otto pacchetti di aiuti militari nel 2022 e nel 2023. Lo stesso livello di sostegno militare verrà sostenuto anche nel 2024. Ma per sostanziare l’articolato accordo decennale non viene stanziato un euro, a differenza degli altri Paesi. Quello firmato da Olaf Scholz prevede sette miliardi per il 2024 e la promessa di «molti miliardi» negli anni successivi; nel documento firmato da Emmanuel Macron si parla di tre miliardi di euro per quest’anno; la Gran Bretagna di Rishi Sunak ha previsto 2,9 miliardi, sempre per il 2024; la Danimarca 1,8 miliardi di euro.
L’Italia non può promettere più di quanto ha già fatto, sente più degli altri Paesi la stanchezza della guerra perché la maggioranza che regge il governo contiene qualcosa di politicamente virale. E non è solo il peso interno di Matteo Salvini. L’alleato leghista sarebbe de minimis rispetto alla prospettiva americana che non lascia dormire sonni tranquilli a Meloni. È un paradosso, ma è così. Nella sciagurata ipotesi che Donald Trump dovesse vincere le elezioni americane, la premier si troverebbe di fronte all’imbarazzante situazione: dovrà scegliere tra Washington, sempre più disimpegnata sul fronte Ucraina (e della Nato in generale), e un’Europa ancora nelle retrovie di Kyjiv. Da sola.
Oggi non possiamo sapere quale e quanta coerenza manterrà la premier italiana, che è anche la leader dei Conservatori europei insieme ai polacchi, i più strenui avversari di Mosca. Avere scritto nell’accordo che i costi saranno coperti con il budget ordinario disponibile, senza alcun costo aggiuntivo per il bilancio dell’Italia, non è un bel segnale. Come non lo sono le parole di Antonio Tajani nelle ore in cui veniva firmato l’accordo. Il ministro degli Esteri ha detto che «il nostro accordo non sarà giuridicamente vincolante. Dal testo non derivano obblighi sul piano del diritto internazionale, né impegni finanziari. Non sono previste garanzie automatiche di sostegno politico o militare».
A Palazzo Chigi assicurano che non ci saranno cambiamenti di politica estera, che gli aiuti a Kyjiv continueranno fino a quando sarà necessario. Wait and see. Non vorremmo che l’accordo del 25 febbraio fosse solo una presa in giro per gli ucraini.