Zucchero e reddito Quando le dinamiche di mercato pesano sulla salute delle persone

Nei Paesi più poveri si sta consolidando una dipendenza da dolcificanti, a farne le spese spesso sono i bambini

Foto di Elena Leya su Unsplash

Il 4 marzo di ogni anno ricorre la giornata mondiale dell’obesità. Istituita dalla World Obesity Federation (Wof), ha l’obiettivo di sensibilizzare cittadini e istituzioni sull’impatto che l’obesità ha sulla nostra salute. Secondo un recente studio della rivista scientifica The Lancet in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) le persone che nel mondo convivono con l’obesità hanno superato il miliardo. In particolare, dal 1990, è diminuito il tasso di persone sottopeso, ma tra bambini e adolescenti quello di persone sovrappeso è aumentato di quattro volte tanto. Per gli adulti, la situazione non è migliore: tra le donne il tasso è raddoppiato mentre tra gi uomini addirittura triplicato.

La ricerca è stata effettuata nel 2022 e ha coinvolto 220 milioni di persone di età pari o superiore ai cinque anni in 190 Paesi nel mondo. L’obesità quindi si conferma una delle più grandi forme di malnutrizione a livello mondiale e una delle più grandi sfide che l’Oms dovrà affrontare nei prossimi anni.

Eppure sembra che la nostra consapevolezza alimentare sia diventata molto più forte con gli anni. Dopo l’arrivo dei prodotti industriali e della grande distribuzione abbiamo imparato a fare più attenzione agli ingredienti utilizzati per i prodotti. Infatti, le grandi aziende si sono adeguate a questo trend attuando strategie di marketing sulle nostre esigenze. Ma più che essere intenzionati a produrre alimenti che apportino dei benefici veri e propri sembra che cavalchino delle mode passeggere. Ed ecco che i supermercati si sono popolati di prodotti ad alto contenuto proteico oppure senza zuccheri aggiunti. Per non parlare del temutissimo olio di palma ormai sparito dalla circolazione.

Cosa ci ha permesso di sviluppare questa contezza? Principalmente due fattori: il nostro reddito e il livello d’istruzione. Da quando acquistare cibo per la maggior parte della popolazione non è più così difficile, l’attenzione si è spostata sulla qualità dei prodotti e su cosa contenessero al loro interno. Il nostro livello d’informazione ha costruito quella consapevolezza interpretando i dati che negli anni hanno evidenziato un legame tra una corretta alimentazione e la nostra salute.

Per esempio, in Canada, dopo averlo richiesto a gran voce, è arrivato un piano nazionale alimentare per le scuole. Lo scorso primo aprile il primo ministro canadese Justin Trudeau ha dichiarato la necessità di questa manovra, non solo in termini di salute, ma anche per aiutare i bambini delle famiglie più economicamente vulnerabili. Ha aggiunto che in un Paese ricco come il Canada nessun bambino si dovrà sentire affamato prima di entrare a scuola.

Il governo destinerà circa un miliardo di spesa suddiviso in cinque anni. Questa misura aiuterà le famiglie della fascia più bassa a mantenere abitudini sane per i loro figli, nonostante l’inflazione alle stelle e i prezzi proibitivi di alcuni prodotti. Il Canada era l’unico tra i Paesi del G7 che non avesse ancora adottato un piano nazionale alimentare di questo tipo. Una decisione socialmente importante che getta delle basi solide sull’educazione alimentare delle nuove generazioni canadesi.

Ma cosa succede invece nei Paesi che non si possono permettere manovre di questo tipo? In questi giorni, in Svizzera, si sta parlando molto, ancora una volta, di Nestlé. L’organizzazione elvetica Public Eye, che si impegna a creare una società più equa e sostenibile, ha denunciato in un suo report che nei prodotti Nestlé per bambini la dose di zucchero non è la stessa in tutti i Paesi dove l’azienda è presente.

Su 78 campioni di Cerelac, un prodotto per bambini dai sei mesi in su, venduti in Africa, Asia e America Latina la media di zucchero presente è di quattro grammi a porzione, una zolletta di zucchero. In alcuni Paesi delle zone interessate, come le Filippine, la media si alza fino a sette grammi. Sullo stesso prodotto, in Svizzera, viene invece esposta la dicitura “senza zuccheri aggiunti”.

Nell’indagine sono stati analizzati circa un centinaio di prodotti della multinazionale e le differenze tra quelli europei e quelli distribuiti nei Paesi a basso reddito è evidente. Laurent Gaberell, che ha firmato l’inchiesta per Public Eye, sostiene che si tratti di una strategia premeditata: i bambini assuefatti dalla quantità di zucchero presente ne chiederanno sempre di più. L’inizio di una vera e propria dipendenza.

Nestlé non è nuova ad accuse di questo tipo: negli anni novanta in Pakistan l’azienda ha indotto la popolazione locale a rinunciare al latte materno, per promuovere con una strategia di marketing spietata e aggressiva quello in polvere. La conseguenza, in un Paese dove la qualità dell’acqua era pessima, furono le tantissime morti infantili dovute a gastroenteriti e malnutrizione. Il film “Tigers” racconta questa vicenda approfondendo la storia vera dell’ex dipendente Nestlé Syed Aamir Raza. L’azienda svizzera, nonostante le evidenze, si è sempre dichiarata estranea ai fatti.

La consapevolezza nei Paesi ricchi porta anche un miglioramento sulla salute dei cittadini stessi. Dove questa manca, le aziende si sentono libere di dettare le proprie regole influendo negativamente su tutto il sistema. E così i dati sull’obesità mondiale continuano ad aumentare. È evidente poi che la qualità dei prodotti sia un argomento fondamentale strettamente legato alla questione economica.

Come le mode citate ad inizio articolo, questa sorta di health washing ormai praticato sui prodotti nei Paesi più ricchi è davvero legato all’attenzione che le grandi aziende hanno per la nostra salute? Oppure se avessero la possibilità e non fossimo così consapevoli continuerebbero a lucrare sulla salute dei consumatori come nei Paesi più poveri?

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter