Real estate chic“Un uomo vero” è la prova che il genio di Tom Wolfe non è per tutti

Su Netflix è uscita la serie tv tratta da “A man in full”, il secondo romanzo dell’inventore del New Journalism, e penso a come le multinazionali dello streaming ci convincano che qualunque storia vada bene per chiunque. Non è vero, chiedete alla mia amica che mi ha telefonato domenica mattina

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Diceva Tom Wolfe che alle cene newyorkesi si parlava solo di real estate, del mercato immobiliare. Naturalmente lo diceva in un’altra epoca: una in cui esistevano i pubblici di riferimento, le affermazioni (le storie, più in generale) non pretendevano d’essere universali, ed era ovvio che lui si riferisse alle cene d’un certo livello sociale e non a quelle frequentate dal droghiere all’angolo; un’epoca, anche, in cui gli scrittori potessero permettersi attici migliori di quelli posseduti dal droghiere all’angolo.

Tenete a mente questa cosa del real estate, poi ci torniamo, prima sento la necessità di chiarire la questione delle classi sociali, che poi è l’unica questione di cui abbia mai scritto Tom Wolfe, lo sapete anche se non l’avete mai letto, lo sapete anche se di lui sapete solo che inventò l’espressione «radical chic».

È la fine del 1962, quando Tom Wolfe decide di diventare Tom Wolfe. Diventare ciò che si è: esiste una decisione più importante nella vita d’un essere umano? Certo che no. È meglio deciderlo presto? Certo, ma non sempre i pezzi s’incastrano velocemente. Lui ha suppergiù trentatré anni, va da quelli di Esquire e dice che vuole scrivere una cosa diversa.

Si è stufato dei quotidiani, delle notizie, dei chi come cosa quando. Vuole essere ciò che è: uno per cui per prima cosa viene lo stile. Dice che vuole raccontare questi ragazzini che a Los Angeles personalizzano le automobili da corsa, le dipingono, le rendono ancora più speciali per chi possa permettersele. Gli dicono va bene, vai.

Va a Los Angeles, scende al Beverly Wilshire, un cinque stelle non supplied by, giacché allora non esisteva ancora l’economia dello scrocco e se volevi stare in un posto da ricco dovevi pagare il conto. Sta lì quattro settimane, a pie’ di lista (torna sempre buona quella sintesi di Natalia Aspesi: una volta ti mandavano in prima classe, oggi a piedi).

Quando torna a New York, si rende conto che in quattro settimane non ha capito niente dell’ambiente, non ne sa abbastanza di macchine, non ha una chiave interpretativa per scrivere il pezzo. Dice al giornale che devono farlo saltare, riempire quelle pagine con altro. E quelli gli dicono: non si può.

È il 1963, e la tecnologia non è mica quella di oggi: le pagine a colori vanno stampate in anticipo. E quindi la doppia fotografica che avrebbe aperto il reportage wolfiano, la doppia pagina con la sua brava macchina da corsa, quella è già stata stampata. Mandare al macero e rifare costerebbe persino più delle sue quattro settimane di pie’ di lista: serve un pezzo che giustifichi la foto della macchina.

Il direttore dice va bene, dacci i tuoi appunti, li diamo a qualcuno di capace che accrocchi un pezzo. Wolfe sta tutta notte alla macchina da scrivere, indirizzando i suoi appunti al direttore. Caro Byron, ho visto questo, ho visto quest’altro. Sono cinquanta fogli fitti, quando finisce di descrivere le robe che ha visto conclude il cinquantesimo foglio scusandosi per l’incomodo creato. Finisce all’alba, va a lasciare la risma a Esquire e poi va a dormire.

Lo sveglia, alle quattro del pomeriggio, una telefonata estasiata del direttore: è la cosa più bella che abbia mai letto, lo pubblichiamo esattamente com’è, taglio solo «Dear Byron» e le scuse finali.

“The Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby” esce a novembre del 1963, e in cima alla seconda doppia, quella di solo testo da cui parte il pezzo, c’è in caratteri giganti questo estratto: «There goes (VAROOM! VAROOM!) that Kandy Kolored (THHPHHHHHH!) tangerine-flake streamline baby (RAHGHHHH!) around the bend (BRUMMMMMMMMMMMMMMM……)».

Sui libri di storia della letteratura resterà scritto che quello è il momento in cui nasce il New Journalism, ma è soprattutto il momento in cui Wolfe diventa ciò che è: uno che può masticare e sputare ogni criterio estetico, ogni regola, ogni tabù (chiunque altro adoperi i puntini di sospensione con la voluttà di Wolfe io mi rifiuto di leggerlo, fosse pure Céline; faccio un’eccezione solo per Barbara Palombelli).

Quello non è solo l’anno in cui Wolfe diventa uno che può scrivere di qualunque cosa in qualunque modo: è soprattutto l’anno in cui diventa uno che ti porta quattro settimane di pie’ di lista del Beverly Wilshire e poi ti dice che non c’è pezzo (ma c’è room service).

Se di Wolfe sapete poco, magari avrete l’impressione che ce l’abbia coi ricchi: è quello che irrideva i milionari che militavano nell’estrema sinistra, no? No, o meglio sì: certo che ride dei ricchi (solo gli scarsi pensano che uno scrittore decente – neanche: grande; a malapena: decente – debba invece ridere del gruppo cui non appartiene, degli avversari, degli altri), ma la costante della sua opera è quanto gli fa orrore l’idea della povertà.

“Il falò delle vanità” non nasce dall’osservazione dei padroni dell’universo, cioè di Sherman McCoy prima della caduta: nasce quando vede un pendolare in metrò, col vestito da poco, ciancicato, sudato, probabilmente infelice della sua vita e invidioso degli Sherman McCoy del mondo. (Prima di essere un libro, “Il falò” esce a puntate su Rolling Stone. Che, siamo a metà degli anni Ottanta, dà a Wolfe per pubblicare i suoi lavori in corso duecentomila dollari. Visto che ormai sono stata così volgare da parlare di soldi).

La pagina più sottolineata della mia copia di “Un uomo vero”, il suo secondo romanzo, è quella in cui Charlie Croker deve decidere se tradire il suo gruppo sociale di riferimento e salvare il proprio patrimonio, perdendo però così gli amici, l’iscrizione al club, tutte le cose che fanno la vita d’un uomo ricco; o se non tradirli, e subire il sequestro di tutti i suoi beni, case, macchine, «e avrebbero comunque perso gli amici, perché il genere di amici che avevano era quello che non poteva tollerare di frequentare gente che non si potesse permettere d’andare a cena in posti da trecento dollari».

(Non ho una copia in italiano di “Un uomo vero”, quindi la traduzione di queste righe non è quella ufficiale. Non mi sarei mai permessa di violare la prosa di Wolfe – o quella di chiunque altro – con una traduzione dilettantesca, fino al 2012. Il giorno del mio quarantesimo compleanno ascoltai Wolfe leggere in pubblico alcune pagine di “Le ragioni del sangue”. Io seguivo col dito sulla pagina come alle elementari, convinta che la perfettissima prosa di Wolfe fosse intoccabile, inemendabile, il Verbo, e quello leggeva saltando, cambiando, trattando le sue parole come fossero intercambiabili. Fu una gran lezione, che ovviamente non appresi).

Giovedì scorso tutti sapevano che non dovevano disturbarmi, perché su Netflix arrivava “A man in full”, adattamento del romanzo del 1998. Ho già citato molte volte la regola di Martin Amis secondo cui gli unici libri adattabili sono quelli in cui la trama conta più dello stile, e credo che le due righe di Esquire ricopiate quissù vi abbiano reso chiaro che in Wolfe lo stile non è una questione minore.

Tuttavia, a me piacque (forse fui l’unica al mondo) persino il film dal “Falò delle vanità”. Certo, non c’era la sua prosa, ma c’erano i suoi pazzeschissimi personaggi. E poi in “A man in full” c’è Jeff Daniels, forse l’ultimo dei grandi attori americani che continui a esercitare (Philip Seymour Hoffman è morto, Jack Nicholson ha meno voglia di lavorare di me, Gene Hackman non ne parliamo).

Quando è arrivata la scena dei cavalli stavo lì ad aspettarla. Avevo già l’articolo in canna: “A man in full” come allegoria delle prossime duecento sconfitte elettorali della sinistra. La coppia di sinistra che si stravolge perché Croker li porta a vedere uno stallone che ingroppa una cavalla, che s’indigna, «è uno stupro», che vuole riprendere l’aereo privato e tornare subito in città.

Nella serie è la moglie che, cercando di far desistere Croker, gli dice questi non sono fatti per queste cose, sono democratici. Nel libro, era Croker a respingere le obiezioni con un più disinvolto «non dirmi che sono liberal e ebrei» (povero David E. Kelley, che ha adattato il romanzo e non voleva prendersi pure le accuse d’avere il protagonista antisemita, oltre al resto): «Questo non c’entra con l’essere ebrei o non ebrei o liberal o non liberal: c’entra con la vita».

Quando venerdì i geni della comunicazione del Pd fanno una card social con lo slogan «Si scrive Giorgia, si legge novax, pistoleri, omofobi, misogini», dopo essermi rapidamente chiesta che percentuale di grande pubblico conosca le parole «omofobo» e «misogino», mi concentro su «pistoleri».

Penso a Charlie Croker nella sua tenuta di campagna, col cappello da cowboy, il cobra domato la sera prima, lo stallone da far accoppiare, i liberal tremebondi che fuggono da tutta quella pistoleraggine ormonale, da tutta quella veracità cui manca ogni postmodernismo ironico. Ricopio dal romanzo: «La gente di città si sentiva sempre in obbligo di far battute circa quel che accadeva nella stalla da riproduzione, che era invece la cosa più seria del mondo».

E poi domenica mattina, mentre mi balocco con l’idea delle fughe parallele, dalla stalla della riproduzione e dai seggi elettorali, squilla il telefono. È un’amica che non sa neppure chi sia Tom Wolfe, un’amica che sarebbe potuta benissimo essere l’autrice di quello slogan contro i pistoleri. Mi dice che la notte non è riuscita a dormire, che ha visto una serie bruttissima, in cui non succedeva niente. Era, siete un pubblico sveglissimo e l’avete già capito, “A man in full”.

È allora che mi ricordo che la cosa più intelligente che abbia letto su quest’epoca di streaming, scritta da chissacchì, è che il decimetro quadro più prezioso di real estate, in questo momento, è la parte alta della schermata di Netflix, il titolo che la app ti propone di vedere quando la apri. Siamo pigri, siamo bombardati da informazioni, siamo gente che ha altro da pensare che decidere cosa vedere.

“A man in full” sta lì in alto, era lì anche quando giovedì la app l’ho aperta io; io l’avrei cercato perché era una delle tre volte l’anno che aprivo Netflix, e l’aprivo apposta per vedere Tom Wolfe, ma la mia amica no. Alla mia amica, se gli agenti immobiliari di Netflix non gliel’avessero spacciata per grande occasione affaccio con vista e grès porcellanato, non sarebbe mai venuto in mente di vedere una storia su un miliardario sessantenne di Atlanta cui la banca vuol levare i fidi.

Come mi manca Tom Wolfe, e quel che saprebbe puntesclamativare del real estate, ora che gli agenti immobiliari da cui ci facciamo intortare sono le multinazionali dello streaming, che ci convincono che qualunque storia vada bene per chiunque, così a fine anno avranno un sacco di ore viste da mettere nei comunicati stampa, e pazienza se le ha viste gente per cui «pistolero» è un insulto e che cercava solo di domare l’insonnia.

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