Paolo Virzì scrive e butta sceneggiature con la disinvolta voluttà con cui la me ventitreenne scriveva e buttava lettere d’amore e disamore. Paolo Virzì perde anche taglie con la voluttuosa disinvoltura con cui lo faceva il metabolismo della me ventitreenne, quindi forse Paolo Virzì è la me ventitreenne, ma di questo magari parliamo dopo.
Quello che ci interessa ora è che, dal 1996 a oggi, Paolo Virzì avrà scritto, boh, centoventi ipotesi di continuazione di “Ferie d’agosto”, film di villeggiatura e di Zeitgeist che neanche lui sapeva sarebbe risultato così moschicida presso il pubblico medio riflessivo («nobody knows anything», diceva un certo William Goldman, che qualcosina di cinema capiva, quando gli chiedevano come si prevedesse un successo).
Una di quelle sceneggiature l’ho letta, anni fa, e vedendo “Un altro Ferragosto”, che esce oggi e con quella versione non ha neppure un rigo in comune, m’è tornato in mente un personaggio che stava tra Saviano e Veronesi, uno scrittore sotto scorta che va a fare militanza sulle barche dei profughi, uno che sarebbe stato all’oggi come il non avere la tv stava alla sinistra in vacanza ventott’anni fa.
Si può, oggi, prendere per il culo la sinistra da sinistra? Forse no. Forse quel tempo è finito quando è morto Edmondo Berselli, e sono rimasti solo quelli che trovano presentabile accanirsi su chi non la pensa come loro, e doveroso essere clementi coi compagni di curva. Sicuramente è finito da quando qualche imbecille s’è inventato la parola «hater», che brasa ogni orizzonte dialettico come neanche «radical chic».
In “Un altro Ferragosto” Silvio Orlando è uno squattrinato ex giornalista dell’Unità, e giustamente sbrocca quando gli danno del radical chic: invoca «l’igiene delle parole», e chiunque non ami le sciatterie lessicali lo sente affine; d’altra parte “Ferie d’agosto” cominciava con un bisticcio tra lui e Laura Morante: lei aveva detto «carinissimo», anche allora aveva ragione lui.
Ma «radical chic» tocca un nervo particolarmente scoperto in Italia, dove praticamente non esistono i miliardari raccontati nel 1970 da Tom Wolfe, quelli che si facevano servire canapé da domestici accuratamente scelti tra i non neri perché il loro dinner party era in onore d’un gruppo di afroamericani (la Giulia Maria Crespi è morta, forse resta giusto una Moratti, ma per il resto la plutocrazia è tutt’un Gianluca Vacchi, da queste parti).
Esasperati dallo slittamento semantico, agl’intellettuali italiani si chiude la vena quando sentono quelle due paroline. Anni fa, a una cena moderatamente radical e piuttosto chic, l’intellettuale italiano per cui ho più stima mi disse che Tom Wolfe era un cretino e quando fosse morto nessuno si sarebbe ricordato di lui, mentre Leonard Bernstein sì che era immortale. Ricordo il turbamento con cui tornai a casa: il mio intellettuale italiano preferito, dunque, non aveva mai letto “Il falò delle vanità” (mi rifiuto tuttora di prendere in considerazione l’ipotesi che, avendo letto anche un solo rigo di Wolfe, egli avrebbe potuto mai dire una simile puttanata).
Quindi, lo sbrocco di Orlando su «radical chic» è un dettaglio preciso, e non è l’unico. In ordine sparso: il perfettissimo squallore del personaggio di Vinicio Marchioni; la cecità di Sabrina Ferilli che dice al conte Max che le è toccato «sei proprio un signore»; l’impenetrabilità di Emanuela Fanelli, scalfita solo dalla scoperta del cinema d’autore; la benintenzionata che per dire alla influencer che è un cesso le dice che ha fatto molto per la body positivity; più di tutto, l’estetica d’un personaggio minorissimo e sublime, il marito di Altiero.
Altiero, figlio del personaggio di Silvio Orlando, si chiama come Altiero Spinelli, ossessione del padre (ci torniamo tra poco), ma è uno dei molti avamposti di contemporaneità con cui Virzì decide di rovinarsi il paesaggio. È andato in America, ha fatto i fantastiliardi con una app, ne torna con un marito che, delle molte prove che negli ultimi trent’anni Virzì ha dato del proprio talento per il casting, è forse la più luminosa. È una specie di albino che spettatori più recenti di me mi giurano non abbia il piercing ai capezzoli ma io me lo ricordo così, da tanto è quella tipologia lì, e non ha i pronomi neutri solo perché è pur sempre un film per il grande pubblico e non per l’Instagram milanese. L’americano conciato da vergine suicida è perfetto.
Solo che quel pubblico lì, quello a forma di venti-trentenne coi pronomi in bio, quello delle serie di Netflix, quello delle dirette Instagram, quello delle buone cause e dei buoni consigli, quello che sembra indispensabile inseguire oggi, quel pubblico lì di “Un altro Ferragosto” capirà pochissimo, e certo non l’ossessione di Silvio Orlando che a Ventotene scrive una lettera alla Von der Leyen perché sia considerato patrimonio europeo il muretto presso cui si riunivano Spinelli e gli altri confinati.
Per due terzi del film mi sono chiesta cos’avrebbero capito, cosa vuoi che sappiano di Ventotene, su, i quarant’anni di malgoverno democristiano lamentati nel primo film erano meno specialistici, ora mica pretenderemo che questi scappati di casa conoscano la storia, questo pubblico in sala che somiglia alla influencer sullo schermo, quella che pensa che al confino ci fosse l’happy hour. Non solo dall’influencer, si capisce che anche Virzì si è posto il problema della ricevibilità dei riferimenti, ma dalla scena che più rende chiaro quanto siamo peggiorati tutti.
Il pubblico medio, quello che andando a vedere il film della Cortellesi scopre che il suffragio femminile non esiste da prima delle piramidi, quello annuirà proprio come Christian De Sica, che in quella scena si mostra comprensivo: ma certo, lo capisco, sono stato giovane anch’io, il muretto, gli spinelli.
La scena che meglio dice quanto siamo peggiorati è speculare alla scena di “Ferie d’agosto” che conoscono proprio tutti, quella in cui Orlando lamentava che i comunisti fossero stati esclusi da tutti i luoghi di potere ed Ennio Fantastichini diceva che lui i partiti li aveva votati tutti (Fantastichini si mangiava il primo film in modo così assoluto che in questo seguito, in cui la vedova lo tiene nelle cornici d’argento sul secretaire, sembra ci sia un buco con la sua sagoma nel muro, come quella del coyote in quei cartoni animati).
Ho visto “Un altro Ferragosto” nei giorni in cui Twitter era pieno di gente che riteneva eroica Serena Bortone per aver detto che era antifascista, e dalla mia poltroncina guardavo Silvio Orlando dire che l’Italia è un paese fascista e mi chiedevo: ma quando siamo diventati così noiosi? Ma quindi l’intellettuale sessantenne di sinistra oggi è uno che si scrive «antifa» nella bio social e non ha niente di meno ridondante e trapassato da dire che dichiararsi contrario a una dittatura d’un secolo prima? Là, dove un tempo neppure remotissimo c’era Edmondo Berselli, oggi c’è un loggionista che urla?
(La scorsa estate qualcuno ha instagrammato delle foto di scena, e i tatuaggi fascisti del personaggio di Vinicio Marchioni sono stati presi per veri. Per un quarto d’ora, è stato gran scandalo sull’internet, nel secolo che non riconosce la finzione scenica neanche se gliela illumini con gli abbaglianti, e che comunque teme di non collocarsi abbastanza in fretta dalla parte dei buoni se non condanna fermamente un «memento audere semper», sia esso tatuaggio di finzione o vera maglietta: avessi avuto ventitré anni, mi sarei indignata anch’io).
Christian De Sica in quella dinamica dovrebbe ereditare il pezzo d’ingranaggio di Fantastichini, ma – è dunque questo il declino della nuova destra, è questa la mestizia del postberlusconismo? – il personaggio non ne ha la fascinosa ribalderia: è un disperato contaballe pieno di debiti, un italiano vero, piccino nelle sue megalomanie, di quelli che avrebbe potuto interpretare Tognazzi, mica Gassman. Invece di ricordarci che gli intellettuali non ci capiscono più un cazzo, dice qualcosa su noi eroici italiani che abbiamo sopportato stoici il greenpass e cantavamo dai balconi: e quindi diventa incontrovertibile che sì, siamo proprio così noiosi.
Li vedi tutti i giorni, se hai un telefono connesso all’internet, quelli che dopo anni ancora si sentono vessati dal greenpass, così come quelli che si esaltano per le dichiarazioni d’antifascismo. Siamo così, cliché ambulanti con dialettica inadeguata ma tronfia, convinti che chi non è sodale sia nemico, in assemblea d’istituto permanente: siamo la me ventitreenne. Scrivo questo articolo nei giorni in cui la vedova di Navalny dice al Parlamento europeo che l’unico modo per battere Putin è smettere d’essere noiosi: signora, venga, le presento un regista che le spiega le prossime duecento sconfitte.
“Un altro Ferragosto” è un film pieno di morte. È Virzì che dice a sé stesso ma soprattutto a chi ci mette i soldi: mica penserete che la commedia col protagonista che muore potesse farla solo Dino Risi. Me li vedo i produttori che, come fece Mario Cecchi Gori col “Sorpasso”, cercano fino all’ultimo di non fargli fare il finale col morto, poi si sparge la voce e la gente non ci va, Paolone tu ci vuoi rovinare (Mario Cecchi Gori aveva un accordo con Risi, se piove non si gira la scena in cui Trintignant muore; quel giorno non piovve: la storia del cinema è anche una storia di meteo).
Spero nessuno si offenda se dico che in “Un altro Ferragosto” sono tutti orrendi: è un film su come ti molla il corpo, e – show, don’t tell – ce lo dimostra rimettendo sullo schermo gli stessi attori di quasi trent’anni prima, sui quali la forza di gravità si è esercitata in quel modo che – bicchiere mezzo pieno – significa che sei ancora vivo. (Manca forse il personaggio di quello che non si arrende al tempo e alla grande paralisi del metabolismo, e quando va in tv è più gongolante se notano che ha perso cinque taglie che se gli lodano lo specifico filmico: manca un cammeo di Paolo Virzì, l’Alfred Hitchcock del secolo dell’Ozempic).
Lo stesso giorno in cui sono andata a vederlo, ho incontrato un signore che non incrociavo appunto dal 1996. Solo che quel signore fa l’attore, e quindi io non avevo mai smesso di osservarlo. Mi pare sia stato Francesco Piccolo, forse era “La separazione del maschio”, a scrivere che un culo che t’invecchia sotto gli occhi non ti sembra mai un culo sfasciato: siete invecchiati insieme. Ma quel signore, invece, non mi vedeva da più di metà della mia vita. Quando è arrivata la scena di Sabrina Ferilli che riconosce Silvio Orlando e sbotta «guarda come s’è ridotto», io mi sono detta: ecco cos’ha pensato quello lì di me, avrei dovuto mandargli ventott’anni di foto del culo, invece così chissà che spavento, gli avessi almeno detto che faccio molto per la body positivity.
È così che va: ci si sfascia, si diventa irriconoscibili a meno che uno non abbia assistito giorno per giorno allo sfascio, gli altri ci guardano e s’illudono, loro mica si sono ridotti così male, ci si volta verso qualche sodale e si dice ma l’hai vista come s’è rovinata, illudendoci che rimarcare lo sfascio altrui esorcizzi il nostro. E poi a un certo punto si muore, che – l’unica volta in cui Guccini abbia avuto torto – è la morte peggiore.
Non è vero che essere stanchi di giocare e sputtanarsi è una morte un po’ peggiore, e non è vero neanche che il peggior destino, nell’epoca dei telefoni con telecamera e delle dirette d’un po’ tutto, sia la mancata fotogenia: morire è comunque peggio che vivere violando l’obbligo di caruccitudine.
L’obbligo di caruccitudine è una delle mie fissazioni: se si rifacesse “Parenti serpenti” in questo secolo, al posto di Marina Confalone ci sarebbe Kasia Smutniak, e capite bene che l’abruzzese della piccolissima borghesia infelice che ha l’aspetto d’una ragazza da copertina è meno credibile e fa meno ridere. Alle commedie sono indispensabili le facce da commedia, quelle che una volta esistevano e ora abbiamo sostituito con le facce da copertina.
Ora che siamo abituati tutti a vederci coi filtri, a percepirci più carucci di come siamo, nel disfacimento di “Un altro Ferragosto” mica possiamo riconoscerci. Quindi usciremo dal cinema e diremo sì, bella commedia, ma noialtri mica siamo così. Così noiosi, così figurine senza problematica, così meschini, così patetici. Finirà di nuovo così: che ci vorranno anni a capirci, a riconoscerci; anni a smettere d’avere ventitré anni, a finirla di guardare lo specchio che ci è stato messo davanti e dire che non ci somiglia per niente.