Dall’intervista più brutta del giornalismo recente avrei voluto, almeno, una domanda tipo «vuoi più bene all’intelligenza artificiale o al tizio che si sacrifica per salvarti?»; e, in caso Ted Sarandos rispondesse con una preferenza per gli umani, una ulteriore domanda su quella puttanata di “Atlas”.
Ted Sarandos è uno dei capi di Netflix, ha cinquantanove anni (il che rende lunari le sue osservazioni sulla forza della diretta – poi ci arriviamo), e Lulu Garcia-Navarro lo intervista per il New York Times per centinaia di righe senza quasi mai fargli una domanda sensata, al tizio responsabile del rincoglionimento dei popoli come e più delle religioni.
Oltretutto l’intervista esce nei giorni in cui su Netflix viene distribuito “Atlas”, filmone di esplosioni in cui Jennifer Lopez è l’orfana della scienziata che costruì un androide (o come diavolo si chiama un affare che sembra un cristiano ma ha delle schede madri al posto degli organi interni) che ora vuole distruggere la Terra. Per evitarlo, Jennifer parte per un altro pianeta, l’astronave esplode subito ma lei si salva pilotando un robottone gigante con cui si sviluppa la trama romantica.
Io per la verità per la trama romantica speravo in Sterling K. Brown, che è quell’attore nero così gigantesco che da solo teneva su quella porcheria di “This is us”, quello che fa il fratello del protagonista in “American fiction”.
Anche con lui all’inizio Jennifer si detesta, e tu speri in un amorazzo finale, ma no, giacché Sterling (smettete di leggere se siete di quelli che vogliono sorprendersi davanti allo schermo e guai a raccontargli la trama) a un certo punto si sacrifica per farla fuggire dai cattivi, tipo Bruce Willis in “Armageddon” (però Bruce Willis si sacrificava per salvare l’astronauta fidanzato della figlia, la quale se volete il mio parere poi detesterà a vita il fidanzato per non essersi sacrificato lui al posto del padre).
Insomma, per Sterling che si fa ammazzare neanche una lacrimuccia, e invece quando il cattivo distrugge il robottone Jennifer si trasforma improvvisamente in prefica e prima che quello si spenga, come massima offerta d’intimità, gli svela persino come prende il caffè (con tre cucchiaini di zucchero).
Perché hai visto questa porcata, Sorcioni, si chiederanno i miei venticinque lettori, e io sono qui pronta a spiegarvelo. Anzi, per la verità ve l’avevo già detto: per colpa del decimetro quadrato calpestabile più prezioso che ci sia, quello in apertura della app di Netflix (decimetro quadrato del quale l’intervistatrice ovviamente nulla domanda a Sarandos: è impegnata a dirgli che a lei piacciono le commedie romantiche e al marito l’horror, vuoi mettere l’avvincenza).
Ho aperto la app perché nella conversazione sul New York Times si parlava del da me mai sentito “Irish Wish”, l’intervistatrice diceva che non era granché, Sarandos diceva che la gente lo guarda per intero, i film brutti a un certo punto li molla, questo invece sessantacinque milioni di spettatori soddisfatti, un grande successo (secondo voi gli ha fatto una domanda sui numeri autocertificati? Certo che no).
Insomma volevo capire cosa diamine fosse questo “Irish Wish”, ho aperto la app, ed ecco che hanno fatto ciò che fanno sempre: attirare pubblico con gli sbrilluccichii di ciò che hanno deciso di promuovere quella settimana. Vorrei fare un sondaggio tra gli abbonati di Netflix: quanti di loro si sono accorti che, nascosto in mezzo a tutto il pattume che Netflix gli suggerisce di vedere, c’è un documentario stupendo su Orson Welles, “They’ll love me when I’m dead”, da Netflix prodotto e da Netflix occultato? Quanti di loro hanno visto quell’inarrivabile trattato sull’ascensore sociale che è “Headliners only”, ovvero le storie parallele di Chris Rock e Kevin Heart?
Nessuno, probabilmente, perché – nonostante l’algoritmo magnificato dall’intervistatrice e teoricamente intelligente come il robottone che protegge Jennifer Lopez dai cattivi – Netflix tenta di venderti le puttanate, perché se sei lì sei stupido, e Netflix lo sa. Non importa quanti documentari su Orson Welles io guardi: sempre “Bridgerton” mi suggerirà, l’algoritmo piazzista.
A un certo punto persino l’intervistatrice scarsa ha un gemito, quando Sarandos dice che non c’è nessuna differenza col cinema, suo figlio ventottenne ha visto “Lawrence d’Arabia” sul telefono (ho controllato: in Italia non è su nessuna piattaforma, meno male, nessuno dei vostri puccettoni lo vedrà mentre fa altre ventisette cose).
Ma il gemito ce l’ha per lo schermo piccolo, mica perché il figlio di uno che di mestiere decide dell’intrattenimento audiovisivo degli abitanti del pianeta ha una così scarsa cultura cinematografica che è arrivato a ventott’anni senza aver visto “Lawrence d’Arabia”. Mica gli chiede del crollo qualitativo delle produzioni cinematografiche nell’epoca in cui ciò che vogliamo dai film è che ci facciano da sottofondo mentre mandiamo dei messaggi, ci limiamo le unghie, prepariamo da mangiare.
A un certo punto dei miei anni di radio, divenne direttore di rete un tizio che, quando gli facevano sentire qualche programma nuovo, concepiva come massima forma di elogio del povero tizio che raccontava le proprie puttanate tra una canzone e l’altra una frase per cui i parlanti pieni di sé rabbrividivano: «Non dà fastidio».
Il direttore era un’avanguardia, e quelli che si offendevano (perché loro volevano essere folgoranti, mica non dare fastidio) non avevano capito nulla: in futuro, l’ambizione dell’intrattenimento tutto sarebbe stata non dare fastidio.
Poi “Irish Wish” non l’ho guardato, perché due film brutti in un giorno non ce la posso fare. Ho guardato il trailer. Dal quale si capisce che è un “Il matrimonio del mio migliore amico” per una generazione senza gusto, senza senso dell’umore, senza star system, senza direttori della fotografia. Peraltro, almeno in Italia, “Il matrimonio del mio migliore amico” (per me capolavoro delle commedie romantiche di fine Novecento, lo so che voialtre sarete per “Notting Hill” o per “Harry ti presento Sally”: volete litigare?) sta appunto su Netflix.
Come da una stessa piattaforma qualcuno possa decidere di scegliere l’emulazione fallita e non il capolavoro originale sarebbe un mistero misterioso, se non sapessimo tutti che scegliere cosa guardare ci pare uno sforzo inutile: pigiamo quel decimetro quadrato lì in cima, Ted Sarandos ha scelto per noi.
Ted Sarandos che è convinto d’aver inventato la diretta: spiega che ha scoperto mandando in diretta roba sportiva o il monologo di Chris Rock che a quel punto si creano aggregazione e conversazione collettiva, ma tu pensa. Persino l’intervistatrice sta per dargli del cretino, e alla fine lui ammette che sì, in effetti la tv che si guardava mentre andava in onda esisteva anche quando lui era giovane, quando trasmettevano “Radici” per strada non c’era nessuno, tutti davanti alla tele. Ma tu pensa, che grande osservatore.
Dice Sarandos che lui è preoccupato della concorrenza delle forme d’arte, mica di TikTok, ché loro mica offrono riempitivi per un’ora buca. L’intervistatrice, naturalmente, non gli dice «scusi, ma la cosa più visualizzata sulla vostra piattaforma è il finto caminetto che la gente tiene acceso sul televisore, mica mi sta dicendo che vi percepite fornitori di prodotti intellettuali».
Ted a un certo punto vuole dire che a lui piacciono sia l’alto sia il basso, e per il basso cita “Is it cak3?”, che devo andare a cercare cosa sia e la descrizione di Netflix dice che è «ispirato a un famoso meme», e non credo di voler sapere altro. Ma il dramma è che come esempio di titolo alto, sofisticato, colto cita “The Crown”, forse il prodotto più trash della storia della serialità.
Ha un forte istinto paterno, Ted. Ci vuol tutti somiglianti a suo figlio. Ciucci e pigri, senza troppe pretese. Com’era “Lawrence d’Arabia”? Non dava fastidio.