È ora di ammettere che io in Giorgia Meloni mi specchio, e non solo per la sua abilità, di principale influencer del nostro secolo, di dire a me e a tutti «siamo uguali, io e te», non solo per il suo illudere me, voi, tutti che ci somigliamo, che siamo speciali ma identici (la più gran truffa di questo secolo, nonché l’unica vera corrente letteraria che abbiano saputo inventarsi i miei coevi, il vero realismo isterico) – no.
Io in Giorgia Meloni mi rivedo per quello che è il suo vero, inarrivabile talento, per descrivere il quale sarà forse necessario dire, prima, che il mondo non si divide mica in cretini e non cretini, in chi sa fare le cose e chi no, in chi se gli dai in mano una situazione la aggiusta e chi la peggiora – macché.
Aspettate, però: prima di arrivare alla grande divisione del mondo, che da una parte vede me e Giorgia e dall’altra tutti voi, dobbiamo parlare del silenzio elettorale. Dicesi «silenzio elettorale» quella convenzione per cui il giorno prima delle elezioni non si fa propaganda. Non si fanno comizi, non si danno interviste, non si va in tv. Non so a cosa serva e se sia sensato, ma non è questo il punto: esiste – in una qualche forma in gran parte del mondo – e in Italia non è stato abolito.
In Italia di solito si vota di domenica, o di domenica e di lunedì mattina, quindi le ventiquattr’ore di silenzio elettorale dalla mezzanotte del giorno prima, come codificate, sono il sabato. Questa volta, lo so persino io che neppure ho la tessera elettorale, si vota anche di sabato.
Quindi, quando qualche giorno fa vedo su Instagram che Enrico Mentana annuncia un incontro televisivo pre-elettorale per la sera di venerdì 7 giugno, mi chiedo se sia impazzito. Se sabato si vota, venerdì ci dovrà essere il silenzio elettorale, no? No.
È infatti del 29 gennaio l’orwelliano decreto-legge che stabilisce che il sabato è in effetti domenica: «Ai fini del computo dei termini dei procedimenti elettorali, si considera giorno della votazione quello della domenica». (Orwelliano o, cerchiamo di non drammatizzare, guzzantiano: facciamo un po’ come cazzo ci pare).
Poiché nessuna televisione capisce cosa diavolo significhi, due settimane fa il ministero dell’Interno dirama una circolare in cui precisa che sì, il silenzio elettorale della vigilia vale non dal venerdì ma dal sabato – che vigilia non è, ma già giorno di elezioni – visto che il decreto-legge di gennaio, ribadisce la circolare col tono spazientito di chi è costretto a sillabare incompreso una cosa perfettamente logica, «considera giorno della votazione quello di domenica».
Ma in che senso? Quelli che vanno a votare il sabato non vengono conteggiati? È perché il governo pensa che gli italiani, abituati a votare la domenica, lasciati sia il venerdì sia il sabato senza propaganda elettorale chissà cosa combinerebbero? E soprattutto: com’è possibile che nessun giornale di sinistra ne abbia approfittato per titolare che il governo ha abolito il sabato? Avevate pure Leopardi da citare, possibile che devo fare sempre tutto io in ’sta casa?
Il talento di mrs Giorgia, dicevo. Il talento di mrs Giorgia non è quello di fare le cose: è quello di dire agli altri quanto non le sanno fare, quanto sono imbecilli, quanto sono ridicoli. È un talento che riconosco, diciamo. Ma è, se non sei una pagata per le sue opinioni ma per governare il paese, un talento frustrante.
Giorgia – che chiamo per nome non per ostentare confidenza ma perché questo ha deciso sia il suo nome d’arte, quello da scrivere sulle schede elettorali, nonostante compitare «Meloni» sia a portata d’analfabeta, mica come «Schlein» che ha il problema di quel «ch» germanofono che per gli italiani è ostico quasi quanto gli accenti francesi – sa che la sua curva è piena di scemi.
Ogni persona intelligente sa che dalla sua parte c’è un pieno di scemi quanto da quella avversaria, solo che se guidi un governo non puoi dare dei cretini ai tuoi (credo Giorgia m’invidi moltissimo il lusso di dire a chi la pensa come me che è un idiota, ogni giorno, più volte al giorno).
Non puoi dare dei cretini a quelli che sbadatamente forniscono ogni giorno alla sinistra il pretesto di dire che siamo nel Cile di Pinochet, da quelli che identificano il loggionista in su e in giù. Non puoi dare dei cretini a quelli che dichiarano che a tavola non si fa la guerra, o che sostengono seriamente sia normale che i treni facciano fermate a richiesta. Non puoi dare dei cretini a quelli che non sanno calcolare che se le elezioni sono il sabato la giornata della vigilia sarà il venerdì.
Avete idea di che inferno sia non poter fare del sarcasmo sugli imbecilli che ti circondano, se sei una cui viene naturale fare del sarcasmo sulle imbecillità umane? Una deve pur sfogarsi, e Giorgia s’è sfogata ieri. In dieci minuti, poco dopo mezzogiorno, chiamati su La7 “Il tempo della politica”.
Una versione nullatenente di quelle che una volta erano le tribune politiche: dieci appelli elettorali autoprodotti, ognuno da un minuto. Una rassegna di casi umani che sembrava di stare in un programma di Formigli: c’era uno che voleva più benzina per i trattori e meno per i carrarmati; c’era Calenda che suggeriva di votare come si sceglierebbe il candidato a un colloquio di lavoro (un romano che pensa che l’elettorato sia un gigantesco ufficio del personale: la commedia all’italiana è viva); c’era un novantatreenne secondo il quale il carnaio mediorientale si risolverà dichiarando i popoli palestinese e israeliano patrimonio dell’umanità.
E poi Giorgia, che ha aperto il suo minuto così: «Cari telespettatori de La7, è da un po’ che non ci si vede, e però spero di trovarvi rincuorati per lo scampato pericolo della deriva autoritaria, del collasso dell’economia, dell’isolamento dell’Italia a livello internazionale».
A nuora, a suocera: Giorgia parla agli spettatori di La7, ma potrebbe parlare alla chat dei Finzi Giannini, dove Massini fa passare un vecchio borbottante al Salone del libro per una grave aggressione, e Flores D’Arcais subito invita a scendere in piazza con lo slogan «no allo squadrismo», e insomma la mitomania vince su tutto ed è chiaro che poi diventa impossibile prendere sul serio eventuali veri segnali di deriva autoritaria, dopo trent’anni di «al lupo».
Potrebbe parlare a chiunque di noi che da trent’anni cianciamo di emergenza fascismo senza che mai ci venga da ridere, ma anzi seguendo la regola di Jep Gambardella: in Italia ti prendono sul serio solo se ti prendi sul serio. Una volta la satira su questi pavlovismi la faceva Guzzanti, la faceva Berselli, la faceva Virzì: la facevano da sinistra. Adesso è rimasta a farla solo Giorgia, e solo perché non può prendersela coi suoi come vorrebbe.
Poco dopo, sull’Instagram di Corrado Formigli, un uomo il cui senso del tono è spiccato quanto il gusto per la bigiotteria, compare il trecentottantesimo allarme democratico della settimana. «Quel che colpisce di questo video è il salto di qualità. Stavolta la Presidente del Consiglio non attacca i giornalisti di La7. Va oltre e sbeffeggia e insulta milioni di italiani che guardano la nostra rete. La premier di mezzo paese che dichiara guerra all’altra metà».
Guerra, nientemeno – d’altra parte Formigli è intriso di spirito del tempo, un tempo in cui ridere di te è la cosa più grave che possano farti e si chiama «microaggressione». Le pare bello, presidente, microaggredire quelli che si commuovono quando Massini fa i monologhi da donna incinta col cuscino sotto al maglione?
Mai un po’ di comprensione per quella poverina – intendo la Meloni, non la Massini incinta – quella poverina che non può dire cosa pensa degli spettatori di Rete4, quegli spettatori che Formigli probabilmente s’illude siano diversi dai suoi, mica una variazione sulla stessa scemenza. Mentre Giorgia, lei sa, ma è costretta a tacere. Che frustrazione.