«Diciamo solo come enunciazione premiale», dice Coletta in colettese alle 19 e 13 nel presentare una cinquina che non è ancora quella dello Strega 2024 (che peraltro sarà sestina) ma quella più votata sul sito, e io in quel momento dimentico tutto: la diretta di RaiPlay iniziata in ritardo di mezz’ora, lo streaming che continua a bloccarsi, persino l’aria condizionata di casa mia che ha appena ben pensato di rompersi.
Dimentico tutto e penso solo che nessuno, nella tv di quest’ultimo anno, mi è mancato quanto Stefano Coletta. Sì, Corrado Guzzanti. Sì, Paolo Rossi. Sì, Pippo Baudo. Ma le conferenze stampa sanremesi con Coletta, quel diritto umano che è stato violato, quello non potrò mai perdonarlo alla nuova gestione Rai.
A causa della ribellione degli elettrodomestici, tema portante del mio 2024, non sono riuscita a capire se Coletta – abito blu con pantalone stretto in fondo, camicia scura, Stan Smith ai piedi: il figlio naturale di Don Johnson e d’un hipster del Pigneto – abbia detto, come m’è sembrato, «Lo Strega è uno step identitario molto importante». Ma non importa, perché poi lo streaming s’è addomesticato, le amiche del gruppo di fan colettiane si sono sintonizzate, e abbiamo potuto goderci tutto il colettese.
«Stefano Petrocchi che invece è pròpo il direttore della fondazione Bellonci», «A a tutti loro vorrei far conoscere pròpo i dodici finalisti»: credo che niente mi sia mancato quanto i suoi «pròpo», neanche gli «allegria!» di Mike. Quando con Chiara Valerio diventa «pòpo», «ho cominciato a leggere questo libro e pòpo all’inizio», mi sento come se fossi davanti a una bozza joyciana con variazioni inedite.
Nel teatro greco di Benevento, tra un abuso edilizio che s’affaccia sulle rovine e una platea di signore col ventaglio alle quali mi sento molto vicina con la mia aria condizionata rotta, Stefano Coletta è a suo agio come chi è nel proprio ruolo. È chiaro che egli è un istrione e sarebbe stato la risposta giusta alla domanda «e ora a chi lo facciamo presentare Sanremo?».
(«Io ho fatto tanti Sanremo nella vita», dice presentando la cinquina finta del televoto, e noi a casa ci struggiamo, e ci chiediamo quale delle voci sia vera, tornerà Coletta nel ruolo che gli compete in Rai e quindi alle conferenze stampa sanremesi? O è vero che andrà al Nove portandosi pure la Bortone? Speriamo di no, a noi Coletta serve nelle conferenze stampa, sui palchi, mica dietro le quinte. Certo, il Nove potrebbe sempre iniziare a trasmettere le conferenze stampa).
Dal ricordo iniziale di Franco Di Mare, «siamo stati direttori insieme», «uomo dal largo cuore», alle considerazioni su cos’è cambiato nella letteratura dopo il Covid, «c’è l’invenzione ma il dato di realtà emerge con prepotenza» – che è il modo beneducato di dire che i romanzi non li scrive praticamente più nessuno, e infatti lo Strega lo vincono perlopiù saggi narrativi e memoir, e presto sulle copertine di tutti i saggi ci sarà stampigliato “romanzo” e chissà se i lettori ci cascheranno – Coletta è il conduttore ideale.
«È vero anche che in termini di reputation sia un premio che è cresciuto molto» dice a un qualche dirigente del premio, e io inizio a canticchiare “Svalutation” ma lui ci crede davvero, come Mike quando diceva al pubblico che se volevano bene ai suoi programmi dovevano comprare i prodotti degli inserzionisti.
C’è anche un po’ del «La mia Liguria» di Elisabetta Canalis nella conduzione colettiana: quando parla con Mastella è beneventano, quando intervista la Di Pietrantonio è abruzzese come lei, «con un codice sempre un po’ ineluttabile dell’accettazione della realtà», che dev’essere la voce Abruzzo di quei sussidiari ai quali sembra semplicistico parlare di siderurgia e barbabietola da zucchero.
Se proprio non possiamo rimetterlo alle conferenze stampa di Sanremo, potremmo almeno pretendere per Coletta un programma di libri, uno in cui ogni giorno, non solo per la cinquina dello Strega, possa dire «”Autobiogrammatica” è un po’ il racconto di una vita attraverso il suono etimologgggico». Ma anche, alla Lattanzi, «La necessità, il bisogno di restare donna, ma anche di diventare madre, scritta con un registro quasi virile».
«Devo dire chapeau», dice Coletta a Paolo Di Paolo lodando un suo escamotage narrativo, e io mi chiedo come mai nessuno abbia ancora scritto un’analisi sociale dell’utilizzo di «chapeau», che unisce gli avvocati (che come tutti sappiamo hanno un lessico che fa rivalutare i giornalisti) e i tronisti, Antonio Cassano e Stefano Coletta. Altro che resilienza, altro che empatia, altro che emozionale (che comunque Coletta usa: «emozionale» è l’«emotivo» di chi ha imparato l’italiano dai listini prezzi delle beauty farm e dalle loro docce emozionali): è chapeau la chiave per capire il declino delle élite.
Ovviamente dei libri non gliene frega niente a nessuno, nel senso che i libri non esistono, esistono i pretesti con cui vengono scritti e pubblicati e comprati, io sono qui per parlare del femminismo intersezionale, della violenza ostetrica, dell’ecologia, dei suicidi in carcere, dell’apertura delle scuole durante la pandemia (ancora?!), della rava, della fava, e se qualcuno si comprerà il mio libro che lo faccia per premiare le mie giuste posizioni e non per dilettarsi leggendolo.
Paolo Di Paolo prova a dire delle cose da cliché di scrittore e non da cliché di militante di qualche causa, «Tu sei da solo con la pagina e sei così incredibilmente vulnerabile, così incredibilmente esposto, qualcosa si scongela», e a quel punto non so perché mi torni in mente il vero modello culturale del nostro tempo, la pubblicità dei plum cake del Mulino Bianco, il padre che alla fine del secolo scorso batteva la fiacca in terrazza e la moglie chiedeva cosa facesse e lui rispondeva serio «Aspetto l’ispirazione».
Poi è andata come sapevano tutti da prima di questa squisita diretta con ventagli, nella sestina sono entrati la Di Pietrantonio, Voltolini, Di Paolo, Giartosio, la Romagnolo, e l’annunciata vincitrice Chiara Valerio. A tutti gli altri restano il codice ineluttabile dell’accettazione della realtà, l’enunciazione premiale, e i plum cake ispiratori da pucciare nel liquore.