Nicola Fornoni è un performer artist. Per chi non conoscesse il significato del termine, significa usare il corpo allo scopo di veicolare significati simbolici e riflessioni di tipo esistenziale. Il fisico diventa dunque un vero e proprio ricettore sensibile, un diapason ad altissima potenza. Nel caso di Fornoni, affetto da una patologia fisica che lo costringe sulla sedia a rotelle, ancora di più. In viaggio tra le principali città italiane ed europee, domenica 7 aprile si è esibito al BASE di Milano grazie all’iniziativa dell’associazione culturale Spazio NOCE, una realtà giovanile in pieno fermento che organizza eventi artistici con gli esponenti di spicco del mondo performativo contemporaneo, a cui fa sempre seguire momenti di discussione e confronto collettivi. Oltre a laboratori teatrali e incontri settimanali di dialogo sui principali temi del presente e sulle sue macrocategorie. L’ultima performance allestita da Fornoni si intitola The Beginning – Light: un lavoro sul concetto antinomico tra leggerezza e pesantezza, tra facilità e difficoltà, tra realizzazione e fatica. In questo caso, l’artista bresciano si è servito di un cumulo di bianche, soffici piume e di un condizionatore ad aria.
Come è cominciato il tuo percorso artistico?
«Ho iniziato a performare nel 2013, dopo un periodo di ricerca all’interno della pittura gestuale. Dopodiché mi sono dato alla performance, perché studiando la body art ho riscontrato delle similitudini tra queste due forme d’arte. Forse anche a causa dello sfondo a cui risale la mia storia. Ho iniziato a performare sulla base di un nuovo valore da dare al mio corpo. Perché non fosse più visto o guardato solo attraverso il filtro della mia disabilità invalidante, bensì qualcosa di prezioso da avvalorare e che potesse avere capacità di realizzare azioni inusuali. Il mio è stato un tentativo di emanciparmi dall’etichetta della disabilità. Ho iniziato con la prima performance a Osnago nel 2013. Da cosa nasce cosa. Sono arrivate le richieste e le mie proposte a partecipare a vari festival e a varie gallerie. Piano piano mi sono espanso».
Di cosa soffri esattamente?
«Dal 2000 circa soffro di sclerodermia. È una malattia autoimmune che nel mio caso ha colpito tutto il corpo, soprattutto i tendini. Non riesco a estenderli e a fletterli completamente. Per questo sono sulla sedia a rotelle».
Che cos’è il corpo per te oggi?
«Diciamo che nel corso degli anni il mio corpo ha cambiato la sua prospettiva. A differenza delle mie prime performance, risalenti a più di dieci anni fa, ho smesso di parlare dolore e di sofferenza facendo riferimento a ricordi e a pensieri del mio passato, magari relativi ai periodi trascorsi negli ospedali. Oggi per me il corpo può essere inteso in maniera più generale, ad esempio alla stregua di un mezzo per creare delle cose intorno a me. Sempre e comunque mediante un principio di fatica. Questo si evince dalle mie performance. Non più però legato al dolore, al pensiero del dolore. È in misura maggiore un andare verso la luce. Non un ricordo soltanto nostalgico».
A cosa equivale una performance? Come ti approcci a questo genere artistico così poco conosciuto a livello collettivo?
«Ho sperimentato varie pratiche, individuali o in compagnia di qualcuno. Oggi mi servo di oggetti simbolici su cui rifletto delle invenzioni creative, delle associazioni simboliche. Mi si aprono delle vere e proprie finestre. Da qui prendono vita immagini, testi dai quali riesco in seguito a formalizzare un’azione. Riesco a concentrarmi e a studiare per creare qualcosa che sia funzionale alla mia idea iniziale».
Mi descrivi la tua ultima performance? Qual è il tuo modo di esibirti?
«L’ultima performance è nata nel 2019 e in quegli anni è avvenuto in me un cambiamento di vedute: volevo lavorare concentrandomi su materiali a me esterni, iniziando da qualcosa di neutro, di soffice, di leggero. Ero stufo degli elementi di dolore che avevo provato. E ho iniziato dalle piume. La piuma è un simbolo di leggerezza, quasi di sogno, come nel caso degli indiani d’America. Ho voluto attribuirle un significato apparentemente contraddittorio e paradossale: leggerezza, sì, ma anche pesantezza e fatica. Il mio soffio costante, persistente, cadenzato poi produce il risultato finale di autentica sospensione. Lo spettatore deve essere partecipe della performance, aver voglia di soffiare anche lui».
Hai ottenuto qualcosa in più rispetto a prima?
«Sicuramente. Avendo avuto modo di discutere al tavolo di riflessione imbastito subito dopo [con i ragazzi dell’associazione culturale Spazio Noce, ndr] sono uscite parecchie idee e opinioni che mi hanno fatto riflettere. In molti casi erano anche visioni diverse dalla mia. Ogni spazio e ogni performance portano un’esperienza nuova. Questa ultima performance in particolare è stata la prima a uscire così come l’avevo immaginata».
Cioè?
«Altrove me l’hanno un po’ adattata. Quando mi sono esibito a Berlino le piume non erano perfettamente bianche. A Venezia non avevo il ventilatore. Al BASE di Milano la performance è invece uscita esattamente come volevo».
Cosa pensi della performance come genere artistico?
«È adattata in modo libero e interpretata anche da chi non è del campo. Molti musicisti ad esempio si legano al concetto di performance o di performative art grazie al loro uso della musicalità. Diventa pertanto uno spazio ibrido. Io sono ancora legato a un’idea della performance come era in principio. Vedo invece che le sfumature sono ibride anche nel caso di coloro che non la praticano di mestiere. È un settore ancora ambiguo».
Quali sono le città in cui finora ti sei esibito?
«Mi sono esibito in Italia e all’estero. A Milano, a Roma, a Torino. A Berlino due volte, a New York, a Londra per una presentazione video. I miei video hanno girato molti posti, dall’America del Sud all’Asia all’Indonesia».
Cosa vedi nel tuo futuro?
«Diciamo che vorrei evolvermi. Ho dei progetti ancora irrealizzati, una performance che si basa sul lavoro con delle sfere di metallo. L’avevo realizzata in streaming a casa durante il periodo del covid. Vorrei la partecipazione del pubblico stavolta. A livello più ampio avrei delle idee che vorrei portare in America, al Guggenheim di New York se riuscirò a mettermi in contatto con loro. Vorrei aggiungere anche maggiori ricerche nei confronti della tecnologia. È un punto su cui vorrei ampliare le mie visioni. Andando verso la contemporaneità soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo della materia. Servirmi cioè non solo della forma video, ma anche di software, sensori. Strumentazioni e oggetti che mi consentano un’elaborazione dei linguaggi contemporanei».
Ci sono ancora dei tabù per quanto riguarda il corpo?
«A livello performativo l’ho riscontrato in passato. Adesso meno, perché io stesso ho diminuito i miei spostamenti. Probabilmente qualcosa c’è ancora. So che la body art permette l’espressività e l’espressione di sé anche per quanto riguarda la disabilità. Al giorno d’oggi sono sempre di più le realtà che collaborano con la disabilità in campo teatrale. Forse piano piano i tabù stanno diminuendo. Dal mondo dell’arte mi sento particolarmente accolto, questo lavoro mi consente di sentirmi libero, di essere quello che sono».