La storia delle democrazie moderne è indissolubilmente legata alla creazione dello Stato di diritto, alla separazione dei poteri e alla tutela delle garanzie individuali tramite il giusto processo. I vecchi Stati liberali si sono suicidati nella prima metà del Novecento quando hanno volontariamente rinunciato a queste prerogative nell’illusione di poter trovare nuove certezze in inedite forme di autoritarismo.
La Germania civile e tollerante di Weimar cominciò a morire quando il più grande dei suoi giuristi, Carl Schmitt, pensò che lo stato di eccezione, la necessità di porre rimedio all’inarrestabile disordine politico e alla crisi continua dei governi liberali, giustificasse la consegna del potere assoluto nelle mani di un dittatore, moderna versione del principe machiavelliano, che costituisse un nuovo ordine avulso dal vecchio ordinamento.
Quando in una società democratica si sente invocare l’esigenza di leggi eccezionali e di nuove accumulazioni di potere è bene che suoni l’allarme. L’erosione dello Stato di diritto è lenta, procede per tappe e trova il suo lievito nelle continue emergenze, fittizie o reali, che l’opinione pubblica avverte o è indotta ad avvertire come incombente.
Uno dei punti di rottura del vecchio ordinamento è l’adeguamento al principio d’eccezione da parte di quelle istituzioni di garanzia che dovrebbero essere preposte alla sua tutela. A esempio, non si comprende la riforma del premierato nel suo fine ultimo senza la voluta emarginazione della figura del presidente della Repubblica, dell’arbitro imparziale. Ogni volta che si tocca o peggio si elimina una figura terza, fatalmente si demolisce un pezzo di libertà.
C’è poco da essere ottimisti in Italia, ovunque si guardi la condizione di salute dello Stato di diritto, ma c’è da allarmarsi quando segni di cedimento o peggio di silenzioso, magari inconscio, allineamento provengono dalle istituzioni terze che dovrebbero presiedere alla guardia delle garanzie e dell’ordine costituzionale.
Spiace dover provare in particolare una sensazione di allarme di fronte alle sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione, vale a dire dell’istituzione di vertice preposta, unitamente alla Corte Costituzionale, alla corretta interpretazione delle leggi secondo i principi propri di uno Stato democratico. Con due sentenze gemelle i più supremi tra i supremi giudici si sono pronunciati su un tema delicato che aveva spaccato il Palazzaccio di piazza Cavour. Per sintetizzare il problema: è una prova legittima quella che si acquisisce con una procedura incontrollabile coperta dal segreto di Stato? È una prova lecita quella costituita da intercettazioni e acquisizione di dati operata da un’autorità giudiziaria straniera con lesione di diritti costituzionali senza che possa mettervi bocca un giudice?
Per la prima volta, contravvenendo a principi radicati nella propria giurisprudenza e in quella delle corti internazionali, gli ermellini della massima giurisdizione hanno detto di sì. E il motivo, anche se non enunciato ma chiarissimo, è che a giustificare questa torsione c’è una condizione eccezionale. In questo caso la possibilità di poter accedere a una piattaforma di comunicazioni criptate (Sky ecc) capace di fornire ai suoi ricchi utenti un software assolutamente impermeabile alle intercettazioni, e perciò ampiamente usato da pericolosissime organizzazioni criminali transnazionali. Il sistema è stato bucato con una operazione di hackeraggio da parte di un gruppo investigativo interforze franco-olandese. Come ciò sia avvenuto è coperto dal segreto di Stato posto dalla Francia, culla dei diritti liberali.
L’uso criminale del mezzo tecnico giustifica lo strappo di diritto: sul punto si è speso personalmente il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo che è andato a perorare alle commissioni parlamentari la necessità di uniformarsi alla Francia sul tema delle intercettazioni.
Tanto evidentemente è bastato: e chi potrebbe mai obiettare di fronte al colpo arrecato ai narcos? Eppure il prezzo è alto: sino a oggi il principio del contraddittorio sulla formazione delle prove è stato dogma indiscusso nel diritto degli Stati democratici. In base a esso la difesa ha diritto a conoscere e interloquire sulle modalità di acquisizione di ogni forma di prova tecnica. In casi famosi, come quelli di Amanda Knox e di O.J. Simpsons, prove scientifiche che sembravano schiaccianti sono state vanificate dalla violazione dei protocolli tecnici e giuridici di acquisizione e conservazione dei dati.
Per la prima volta le Sezioni Unite dicono che non è più necessario, e che la ragion di Stato e lo Stato di eccezione giustificano ciò che non può spiegarsi nel contraddittorio. Non è solo una tradizione giuridica che viene accantonata, ma anche uno dei più importanti principi liberali: il falsificazionismo, quella teoria ideata da Karl Popper, non a caso padre della “società aperta”, per cui una teoria può dirsi scientifica solo se è destinata o è suscettibile di essere smentita da una di segno opposto.
Le Sezioni Unite oggi dicono che c’è una prova tecnica che non può essere smentita o falsificata. Lo dicono per una questione di politica criminale che ne spalanca una ancora più enorme di portata meramente politica. Che cosa accadrà quando in uno Stato autoritario un governo dovesse produrre un filmato, una registrazione o un’intercettazione contro l’opposizione (fornita da uno Stato “fratello”) apponendo il segreto di Stato sui dati tecnici e la procedura di acquisizione, asserendo che l’algoritmo è infallibile? Che cosa potrebbe accadere nell’era dell’intelligenza artificiale?