A sinistra stanno succedendo varie cose: il trionfo dei laburisti, l’unità del centrosinistra larghissimo in Francia – vedremo domani sera se sarà riuscito, come ci permettiamo qui di prevedere, a bloccare l’estrema destra –, ancora prima c’era stata la tenuta degli europeisti a Bruxelles, e da noi la vittoria del centrosinistra alle amministrative. La destra è forte ma i suoi avversari per reazione danno segni di ripresa.
In Italia si discute di come organizzare l’opposizione al governo Meloni, che non sta attraversando una fase smagliante. Lo schema che sta prendendo corpo sembra poter mettere tutti d’accordo, da Elly Schlein a Matteo Renzi passando per Giuseppe Conte (che però è un uomo politico intrinsecamente inaffidabile, che cambia posizione a seconda delle proprie convenienze). Ieri la segretaria del Partito democratico, alla direzione, ha parlato di «alternativa di governo» (molto meglio di “campo largo”): un passo avanti. Ha affermato: «Non mettiamo veti». Un modo elegante per archiviare la stagione lettiana, quella del «Renzi ci fa perdere voti», un segnale di pace ai terzisti.
Ne scaturisce uno schema semplice: l’architrave è il Partito democratico di Schlein, che a oggi è la sfidante naturale di Giorgia Meloni (non serve nessun “federatore”), un Partito democratico più “americano” e spostato a sinistra sia sui temi sociali sia su quello dei diritti civili.
Il suo punto debole è la mancanza di un serio programma economico: archiviato il tema della leadership del partito, questo è lo spazio per dare un senso all’anima riformista del Partito democratico, se solo cominciasse a occuparsi di politica oltre che di poltrone, e l’arrivo di Paolo Gentiloni a Roma in questo senso può molto aiutare.
Un altro pezzo del riformismo, più piccolo, dovrebbe ritrovarsi in un nuovo partito, quello che nascerebbe sulle ceneri del Terzo polo e che Renzi ha chiamato “Margherita 2.0”, non guidato da lui né da Carlo Calenda ma da un esponente diverso, forse – è un’idea che circola – da un/a attuale dirigente dem o da una personalità vicina al Partito democratico come segno di un ancoraggio al centrosinistra. Tramonterebbe così definitivamente il progetto di una forza che non sta né di qua né di là.
I riformisti starebbero dunque nel Partito democrtaico e nel nuovo partito, al contrario dello “schema Bettini” che prevede un Partito democratico di sinistra e una nuova Margherita moderata. Tutto questo, a quanto ci risulta, va bene sia Elly Schlein che a Renzi, mentre dice un secco no, alla maniera, Calenda: «Schlein ha spiegato che è più facile lavorare con Renzi che con noi. Ha perfettamente ragione: noi chiediamo un programma di Governo credibile, Renzi tre posti sicuri alle prossime elezioni». Niente da fare: se Renzi fa una cosa, Calenda fa quella opposta. Più facile un accordo tra i comunisti francesi e Emmanuel Macron che tra i capi dell’ex Terzo Polo…
Se poi nessuno riuscisse a costruire questa “Margherita 2.0”, il Partito democratico – spiega il riformista Enrico Morando – non dovrebbe delegare ad altri il compito di rappresentare l’istanza riformista ma «ambire ad assumerla in prima persona, tornando a essere effettivamente quello che ha promesso di diventare con il suo atto di nascita: un partito di centrosinistra».
Per quanto riguarda Conte, si è detto della sua volubilità. Ma la crisi del Movimento 5 stelle, la concorrenza “da sinistra” di Alessandro Di Battista, la scelta (disperata) di andare nel gruppo europeo Left con Ilaria Salis, lo spinge ad accodarsi al Partito democratico come unico modo per assicurarsi la sopravvivenza.
Avs del duo Fratoianni e Bonelli infine vive un ottimo momento, copre le istanze più di sinistra e Schlein si fida del loro senso di responsabilità anche nella prospettiva di governo. Questa è la cornice dell’alternativa a Giorgia Meloni che va da Alleanza verdi e sinistra a Matteo Renzi.
Resta enorme il problema dei contenuti. Schlein propone di partire dai “temi” sui quali convergere, il che sarà anche di buon senso, ma per esempio sulla politica estera restano tutte le differenze, in particolare sull’Ucraina, e l’abisso culturale e ideale che sulle questioni internazionali separa la sinistra più radicale dai riformisti. Non a caso, alla direzione del Partito democratico, Lorenzo Guerini ha chiarito che il Front Populaire non è un modello. Ma già è qualcosa se cade il veto su Renzi e il no di quest’ultimo a cooperare con il centrosinistra.