Proviamo a immaginare la scena, se riusciamo a farlo senza soffocare dal ridere. Proviamo a immaginare un politico di destra che attacca pubblicamente un giornalista, e Repubblica che titola come fosse una legittima polemica tra un’istituzione e una testata.
Proviamo a immaginare, chessò, la Meloni che querela Saviano per una cosa detta a “Piazzapulita”, e come titolo d’apertura “L’ira della Meloni su La7”. Come diceva quello spot: immagina, puoi.
È andata così. Che venerdì scorso il New York Times scrive del “Mortadella Nightmare” in cui si è trasformata Bologna, io riporto, e – ingenua Pollyanna – penso che la cosa finisca lì. Penso che oggi potrò occuparmi di Velasco che non ne può più di sentirsi fare sempre le stesse domande, dell’incredibile ritratto di Bari Weiss pubblicato dal suo ex giornale, d’altro ma non d’una bega internazionale ma locale. Illusa.
Prima di scoprire perché tocca tornare a occuparsi, pensa te, del turismo pezzente che invade Bologna, e dell’offerta commerciale che si adegua, devo precisare una cosa che non avevo scritto nell’articolo uscito sabato, e fare una divagazione personale. Lo so: che stranezza.
L’articolo nella pagina delle opinioni lo firmava Ilaria Maria Sala, che io non conoscevo ma – tu pensa – il mio computer dispone di un modernissimo archivio mondiale, nel quale, tu pensa, posso inserire il nome della signora e scoprire che è nata a Bologna, vive a Hong Kong, e persino che ha l’hobby della ceramica. Chissà cos’avrei potuto scoprire di lei se avessi avuto accesso agli archivi dell’anagrafe, ma non mi sembrava importante: era importante che fosse un editoriale sul NYT, mica chi l’avesse scritto.
Divagazione personale. Qualche anno fa ho scritto un articolo per quelle pagine del New York Times. Dei commenti delle varie Vongola75 che all’epoca allietarono i social, ricordo solo i più esilaranti. All’epoca mi fece molto ridere una scrittrice secondo la quale quelle pagine pubblicano tutto, che ci vuole, se hanno pubblicato lei e non noi è solo perché non ci siamo proposte: tu gli mandi un pezzo in italiano, e loro lo traducono.
Allora mi sembrò ovvio che pubblicassero proprio tutti (diamine, avevano pubblicato me), ma credevo che quella del pezzo mandato in italiano fosse un’idea lunare della procedura. Però una settimana fa ho letto sotto l’editoriale di Veronica Raimo sul film della Cortellesi «This essay was translated from the Italian by Geoffrey Brock for The New York Times», e ho scoperto che in effetti puoi mandare un articolo non in inglese: devo dar più retta alle Vongole.
L’altra categoria di divertimento erano quelli che, ancora non lo sapevo, avrebbero potuto fare il sindaco di Bologna. Quelli che scrivevano «L’hanno relegata alla pagina delle opinioni» (invece che a quella del baseball). Pensavo fosse un pensiero che poteva formulare solo Brocco81, poi è arrivato Matteo Lepore.
«L’articolo è un “guest essay”, quindi non rappresenta editorialmente le opinioni del New York Times e questa giornalista non lavora per il New York Times». La frase di squisita ignoranza compare sabato pomeriggio sul Facebook di Matteo Lepore, sindaco di Bologna per mancanza di prove, e contiene al suo interno tre strati d’incredibilità.
Il primo l’avevo già sintetizzato a novembre scorso, quando Lepore aveva linkato sui suoi social un articolo del NYT sulla Garisenda: «L’articolo riportava un’agghiacciante previsione di dieci anni per mettere in sicurezza la torre storta, ma ciononostante Lepore lo instagrammava entusiasta, perché è quel genere di provinciale per il quale stare sul New York Times è comunque una conquista».
Con lo stesso principio, che l’incubo della mortadella sta nel titolo e stavolta non puoi spacciare il comparire sul NYT per una tacca di prestigio, neanche i tuoi elettori che figurarsi se leggono un articolo in inglese ci crederanno, stavolta, con lo stesso principio Lepore sabato spiega, contando sull’ignoranza d’un elettorato che proprio come lui non sa come funzionino le pagine d’opinione, che il NYT ha pubblicato l’articolo, ma mica è d’accordo.
E infatti, secondo strato, è l’articolo d’un’esterna, quelle che una volta avremmo chiamato «libere professioniste», ma ora la parte politica di Lepore le chiama «precarie» per meglio difenderne i diritti. Tutti i diritti, tranne quello di dire che a Bologna ormai ci sono solo posti dove mangiare taglieri di salumi.
D’altra parte, terzo strato, le opinioni del New York Times sono ben altre, perché il New York Times, giornale d’un paese disinteressato a ciò che succede già in Canada, ha di certo opinioni redazionali su una provincia italiana. Viene in mente quel vecchio sketch del “Saturday Night Live” in cui Jerry Seinfeld fa il professore di storia e i liceali americani non riescono a nominargli uno stato europeo che non sia la Francia: Lepore l’ha sicuramente visto, tra una telefonata al New York Times e l’altra.
In omaggio c’è anche un quarto strato. È che Paola Cortellesi, che non ha avuto reazioni scomposte quando Veronica Raimo ha espresso dei dubbi sul suo film su quelle stesse pagine, è assai più istituzionale di Lepore. Sarà perché è più sicura di sé come regista che Lepore come sindaco. Sarà perché è più intelligente. Sarà che ha abbastanza senso del ridicolo da non dire «eh ma quello della Raimo era un guest essay».
Ma ho omesso la parte migliore del delirante post di Lepore. È questa: «L’articolo è a firma di tale Maria Sala, una giornalista che afferma di essere nata sotto le due torri, ma vive all’estero e scrive da Hong Kong». Già solo «tale», l’avessero usato Salvini o la Meloni, sarebbe bastato a farci stracciare le vesti e citare il duemilionesimo posto dell’Italia nelle classifiche sulla libertà di stampa. Poi c’è il nome monco, neanche Bologna avesse per sindaci noti spiritosoni specializzati in storpiamento di nomi quali Marco Travaglio o Emilio Fede. E poi c’è «afferma di essere nata» («sotto le due torri», perché Lepore ha la fobia delle ripetizioni come i più asini tra i giornalisti, e quindi usa queste locuzioni da 41 bis). Afferma. Quindi non lo è? Millanta?
Il giorno dopo, la prima pagina del dorso locale di Repubblica apre così: «L’ira di Lepore sul NYT – “Insulto e danno alla città” – Dopo l’articolo sul dilagare della mortadella, il sindaco scrive al quotidiano Usa». Tecnicamente, un falso. Non solo Lepore se l’è presa solo con la povera Carneade Sala, che in altre circostanze sarebbe collaboratrice precaria alla quale i fascisti vogliono far perdere la fonte di sostentamento, ma il New York Times l’ha proprio assolto, attribuendogli d’imperio ottime opinioni sugli aperitivi con tagliere, opinioni che solo per discrezione il giornale non ha ancora pubblicato.
All’interno, Repubblica fa tre domande a Ilaria Maria Sala, che dice «Io credo che il sindaco – che è anche il mio sindaco visto che sono di Bologna, dove ho studiato e ho la residenza – usi un tono che non è all’altezza di una carica pubblica». Ah, ha la residenza a Bologna. Ah, Lepore neanche una ricerchina negli archivi dell’anagrafe, ha fatto. In confronto Chiara Ferragni era ben consigliata.
(Luca Bizzarri a questo punto direbbe che Lepore non ha un amico, ma io sono contraria a questa visione idealizzata dell’amicizia. Come tutti, Lepore avrà amici che, tra una bruschetta e un’oliva, gli danno ragione, perché fa caldo e nessuno vuole incomodarsi a discutere, e se ti sembra una buona idea scrivere «una tale Maria Sala» fallo pure, intanto ordiniamo un altro prosecchino con tagliere).
Le pagine di Bologna del Corriere pubblicano una lettera della Sala, che giustamente gli consiglia l’uso di Google, e gli dice che non sa come funzionino gli articoli d’opinione sul NYT (Lepore è come le influencer che leggono solo la rassegna stampa che parla di loro: difficile in questo modo farsi un’idea del contesto d’un giornale); e, visto che c’è, infierisce, ricordandogli la posizione di Renzo Imbeni, sindaco di Bologna negli anni Ottanta, «quando gli veniva chiesto perché Bologna non sviluppasse maggiormente il turismo: diceva che era perché le città sono fragili, e il turismo è distruttivo».
Immagino che Sala l’avesse scritto nel suo articolo ma il desk del NYT gliel’abbia tagliato perché nessun lettore americano sa chi fosse Imbeni: a me – di nuovo a parlare di me, ma allora è un vizio – avevano tagliato Maria Goretti; pur di tenerlo, lasciai che venisse tagliato “La ragazza con la pistola”, ma fu la scelta di Sophie.
(Questo è il punto in cui quelli che non sanno come funzionino i giornali si meravigliano che un editoriale per il New York Times sia sottoposto a un processo di editing, e pensano che ciò rappresenti un’amputazione della libertà d’espressione: se il sindaco tenta di maramaldeggiare su una Ilaria Maria Sala va tutto bene, ma se gli articoli vengono limati in accordo con l’autrice prima di venire pubblicati, allora è la Corea).
Nel momento in cui scrivo, a mezzogiorno di lunedì, sui social di Lepore non sono ancora comparse scuse per la reazione scomposta. In compenso tra i commenti ci sono: «Sciocchezze da bar, questa giornalista è stata pagata per scrivere tale offesa per una delle più belle città d’Italia?»; «Grazie Sindaco per aver replicato all’articolo»; «La giornalista in questione ha dimostrato solo di essere una pennivendola. Andrebbe chiesto un risarcimento per danni di immagine».
Naturalmente nessuno di noi si meraviglia se legge commenti scemi su un social: nessuna persona intelligente si mette a commentare i social di gente che non conosce, nessuna persona non psicopatica si accalora nei commenti social della gente famosa, nessuna persona non completamente rincitrullita lascerebbe mai il suo penzierino sotto ai penzierini di Lepore (ma pure a quelli di Barbra Streisand o di Cirino Pomicino).
Però io vorrei tanto, tantissimo, che qualcuno mi spiegasse che differenza c’è tra lui e gli altri. Se il sindaco del Pd – per dirla col linguaggio loro – compatta i suoi inveendo contro un articolo che non lo nomina neanche una volta, e i suoi si esprimono con alati «pennivendola», dov’è la differenza con un qualunque exploit di Salvini e suo elettorato al seguito, al quale risponderemmo ululando alla mancata libertà di stampa oppressa dal ritorno del fascismo?
Vorrei tanto, tantissimo, sapere se la libera stampa bolognese abbia intenzione d’individuare un limite a quel tic locale che è «eh ma se non li difendi poi vincono i fascisti ed è peggio», o se in nome del fatto che sarà un imbecille ma almeno è il nostro imbecille continueranno così: a essere amministrati da gente che è intollerante del dissenso tale e quale alla destra, è prepotente tale e quale alla destra, pensa solo a instagrammarsi tale e quale alla destra, ma almeno è dei partiti di sinistra.