Lectio soncinianaJLo, Clooney e la grande illusione dell’economia dell’esposizione permanente

È possibile fare un ragionamento sul divario sempre più incolmabile tra la visibilità e gli effettivi incassi? Sì, ma non chiedetemi come si fa la pasta frolla

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Era settembre, come ora. C’era il festival del cinema di Venezia, come ora. Ben Affleck e Jennifer Lopez avevano passato l’estate sui giornali, come ora, ma non con notizie della loro prima imminente e poi avvenuta separazione, bensì col loro non confermato esser tornati insieme dopo vent’anni.

Era tre anni fa: sembran trecento. Quando Jennifer e Ben scesero dalla macchina sul tappeto rosso, teoricamente per l’anteprima veneziana d’un film di lui, in pratica perché lei potesse bullizzarci con quello scollo che a cinquant’anni possono permettersi in poche, io e C. ci mandammo il messaggio che ci eravamo mandati a ogni loro apparizione sui giornali in quei mesi: cosa stanno cercando di venderci?

Forse difettiamo in romanticismo, forse eccediamo in consapevolezza del secolo in cui viviamo, un secolo in cui Liz Taylor e Richard Burton sarebbero sponsorizzati da Bulgari. Mica ci staranno dicendo che son tornati insieme senza uno sponsor piccino picciò, dai. E invece.

E invece eccoci qui, tre anni dopo, a commentare con struggimento il giro immenso e il ritorno non duraturo dell’amore di Ben e Jen, e a dire con diffidenza che gli Oasis son tornati insieme solo per soldi. Cioè, per l’unica ragione che tiene solidamente insieme un impasto (ho chiesto a una pasticciera il permesso di usare la similitudine delle uova nella frolla, mi ha detto che la frolla si fa senza uova e mi ha cacciata dalla cucina: morirò senza sapere cosa tenga insieme la frolla – forse niente, e infatti è appunto frolla, quanto la storia di Ben e Jen).

È possibile fare un ragionamento che tenga assieme il crollo dell’economia culturale e l’ascesa dell’economia di quelli che accendono la telecamera del telefono? Ogni volta che mi trovo a qualche cena di gente di cultura, penso che Yasmina Reza dovrebbe farne una pièce. Mi piacerebbe che la intitolasse “Finale di carriera” (sì, è un omaggio a Fossati: ai tredici che l’hanno colto, in omaggio un biscottino).

C’è sempre quello che racconta attonito del tal programma televisivo che gli ha proposto di fare l’ospite fisso gratis, e gli autori erano stupitissimi che non fosse convinto. Quella che svela la cifra che hanno pagato alla famosa attrice per declamare l’audiolibro del suo romanzo, ed è una cifra per cui una pensa che una famosa attrice neanche risponda alla telefonata d’offerta, e invece.

Io ho sempre l’aneddoto migliore (sono molto competitiva sugli aneddoti), ed è quello d’un festival al quale avevo accettato d’andare gratis, a dire quattro stronzate in una conversazione sul palco con altri intellettuali pagati in prosecco sgassato.

Avevo accettato (non lo faccio mai, il mio unico principio etico è che gratis non si fa nulla, tantomeno si va ai festival che non servono a niente se non a far avere finanziamenti ai festival stessi) perché il signore dell’organizzazione che me l’aveva chiesto era stato molto garbato. Però un po’ di tempo dopo mi aveva telefonato un’altra signora dell’organizzazione, una settantenne già docente universitaria che, evidentemente equipaggiata degli strumenti d’una ventunenne commessa di Sephora, aveva esordito con «Posso darti del tu?».

La signora aveva quindi proceduto a fare un numero di equilibrismo molto diffuso in questo secolo, lo stesso per il quale l’attrice famosa legge un libro a voce alta per un centesimo di quel che prenderebbe accendendo la telecamera del telefono e dicendo quant’è efficace una crema antirughe. Il numero s’intitola: dovresti lavorare gratis per me in nome del fatto che io ti stimo moltissimo.

(Una civiltà evidentemente rovinata dal librettista della “Traviata”, che ci ha convinti tutti che «Qui testimoni vi chiamo che qui pagata io l’ho» sia un marchio d’infamia, mica un parametro di valore. Certo, Violetta non vendeva prestazioni intellettuali, ma devo ancora trovare qualcuno capace di convincermi che sesso e gravidanza siano due prestazioni che ha un qualche senso fornire gratis).

Torniamo all’organizzatrice che mi dice «sei sprecata in un panel» (perché naturalmente parlava in neolingua, e quindi il dibattito sul palco lo chiamava panel), e procede a dirmi che ha pensato che è il caso ch’io tenga una lectio (perché naturalmente non poteva non coglierla quel crampo dell’intelletto che è il latino) su non ricordo neanche più che tema, «una ventina di minuti».

Ero ipnotizzata dallo spettacolo d’arte varia d’una tizia che mi stava suggerendo di trasformare una forma lieve di lavoro non retribuito – una gita fuori porta con due chiacchiere – in una forma di lavoro parecchio impegnativa: prepararsi venti minuti di testo. E che lo faceva senza ritenere di parlare di soldi.

«Scusami, ma voi avete un budget?», chiedo col più innocente dei toni. No, mi risponde lei procedendo poi a un classico di queste dinamiche: il sensodicolpismo. «Nessuno ci ha mai chiesto niente»; sottotesto: non vorrai mica essere tu la prima che viene pagata per parlare a un festival che io vengo pagata per organizzare. Però, continua, se hai in mente una cifra posso provare a chiedere un extra budget.

Le spiego, con tutto il garbo che posso avere con una cui sto dando del tu senz’averla mai vista, che il punto non è aprire il suq e la relativa trattativa economica: la domanda è come le venga in mente di chiedermi di preparare una lectio senza pensare di pagarmi. È a questo punto che la signora si produce nel capolavoro. Dopo aver premesso che capisce il mio punto, offre la soluzione in cinque parole facili: «Possiamo anche non chiamarla “lectio”».

Sarei dovuta andare a quel festival per sdebitarmi della valuta in conversazione che mi avevano fornito. Non c’è stata, da quel giorno, una cena in cui «Possiamo anche non chiamarla “lectio”» non sia stata la battuta più acclamata.

Chiamiamola Vladimira, nessuno si è mai fatto pagare una Vladimira. Chiamiamola Paloma – no, non funziona, c’è un cocktail chiamato Paloma e a nessuno al mondo verrebbe in mente di non pagare il barista. Violetta neanche, ché c’è il precedente librettistico. È davvero corta la panchina di nomi che sottintendano «non retribuita».

Da quando abbiamo smesso di considerare i soldi la misura condivisa del successo e del lavoro, è andato a puttane anche tutto il resto. Uno degli autori che vendono più libri in Italia manda mail d’insulti a critici che osino sbeffeggiarne la prosa. Perché non piange fino in banca, invece? Sarà mica perché vive in un secolo che l’ha illuso che la pubblica approvazione conti quanto gli incassi?

Una delle polemichette dell’estate è stata nei confronti d’una tizia che non avevo mai sentito nominare e di cui ho già dimenticato il nome. La tizia ha un milione di follower su Instagram, e questo è un altro aspetto del problema: ormai il mondo della comunicazione è fatto di nicchie giganti che fanno sì che nessuno sia davvero famoso e che ogni percezione sia distorta. A chi segue la pagina della tizia, la vita della tizia arriva in tasca senza neppure andarsela a cercare, e quindi la percepirà famosissima. Per me che non la seguo, un milione di follower non la renderanno meno sconosciuta, giacché non me la troverò mai in un film o in altro consumo culturale condiviso: se non la seguo, non la incrocerò mai.

Insomma la tizia col suo bravo Instagram di viaggi di lusso e borse di marca dice che deve far operare d’urgenza il cane, e i follower le danno seimila euro. Lo scandalo è inevitabile, giacché la dipendenza da dopamina ci spinge a cercare un linciaggio al giorno per sentirci dalla parte dei buoni, e quindi figurati se una che chiede soldi non viene poi linciata (sarebbe interessante vedere l’intersezione tra l’insieme di chi è così fesso da dare soldi a una sconosciuta e di chi è così fesso da scandalizzarsene: sospetto che la sovrapposizione sia pressoché completa).

Naturalmente la polemica è stata sulla non credibilità dell’intervento al cane e sulla non credibilità del non avere la tizia seimila euro, perché questa civiltà non è pronta per considerare assurdo che tu chieda l’elemosina all’internet, anche se non ce li hai davvero, anche se il cane sta male davvero. Ma qualunque persona ragionante sa che il punto non è se la tua richiesta sia una truffa (mica controlliamo se il mendicante cui diamo un euro ci si compra davvero da mangiare): il punto è decidere i confini di ciò che è accettabile.

Chiedere soldi a chi guarda i tuoi filmini col cane per far operare il cane è più o meno disonesto che fingersi ricca con vacanze a scrocco? Più o meno disonesto che mettere una persona su un palco facendola apparire importante a chi sta sotto quando quella persona non è abbastanza importante da pagarla? Più o meno disonesto di quando Mike Bongiorno era fautore d’un mirabile ricatto emotivo dicendo al pubblico di Canale 5 che se non avessero comprato i prodotti pubblicizzati durante i suoi programmi poi loro non avrebbero più potuto mandarli in onda?

L’altro giorno il New York Times raccontava che il film con George Clooney e Brad Pitt che si vedrà nei prossimi giorni a Venezia, “Wolfs”, doveva avere una seria uscita in sala prima di andare su piattaforma (Clooney teorizza che il passaggio in sala sia fondamentale per rendere un film il talk of the town, che direttamente su piattaforma “Barbie” non sarebbe stato “Barbie”). Invece starà in sala solo una simbolica settimana in America, e in tutto il mondo sarà subito sui nostri telefoni a una cifra mensile d’abbonamento che è meno d’un singolo biglietto di cinema.

Raccontava il NYT che Clooney è costato trentacinque milioni, Pitt altri trentacinque, e il regista quindici. Se fate il conto di quanti abbonamenti mensili servano a Apple+ per rientrare del budget, vi mettete a piangere.

Quando vediamo Clooney e Pitt sulla copertina del GQ americano pensiamo siano due star del cinema, e lo sono perché vengono pagate trentacinque milioni, ma forse non lo sono visto che il loro film siamo disposti a vederlo solo gratis, e pure GQ mica andiamo in edicola (parlandone da vive) a comprarlo. A cosa servono le foto patinate fatte come se fossimo nel secolo scorso, i festival del cinema raccontati come fossimo nel secolo scorso, le vite da ricchi senza gli incassi del secolo scorso?

Jennifer Lopez è seguita dai paparazzi ogni giorno della sua vita; su Instagram, da quando l’ha aperto, da duecentocinquantuno milioni di persone. Ha pure una newsletter, alla quale sono iscritta persino io che aborro le newsletter, e con la quale ovviamente intende venderci roba. Naturalmente a questo punto la domanda è: la prevista tournée dei suoi concerti è stata annullata perché i duecentocinquantuno milioni di follower non compravano i biglietti, o perché JLo era impegnata con la crisi del suo matrimonio?

Non lo sapremo mai, giacché non sappiamo niente delle vite nostre figuriamoci di quelle degli altri, ma nella risposta ci sarebbe forse la soluzione al dilemma della contemporaneità. Se duecentocinquantuno milioni di teoricamente devoti non ti bastano a vendere i biglietti d’un tour, tutto questo ha senso? L’economia dell’esposizione permanente, l’economia dei cuoricini, l’economia del consenso e non del talento, possono trasformarsi in altro? Possono diventare una vera economia, cioè una cosa in cui a un certo punto qualcuno investa dei soldi? O ci guadagneranno sempre e solo le piattaforme social che ci danno dopamina e incassano fantastiliardi dallo spaccio?

Può chi ti segue solo perché disperatissimo e annoiato e incapace di consumi culturali impegnativi diventare uno che compra un biglietto, un libro, una crema antirughe che tu stai lì per vendergli? Se, diversamente da Mike Bongiorno, dissimuli il tuo essere lì per vendermi qualcosa, io poi non me ne approfitterò raccontandomi che non ti devo l’acquisto, che da me mica vuoi volgari transazioni di carta di credito, che tu stai nel mio telefono perché sei mia amica, e possiamo anche non chiamarla «lectio»?

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