Wonderwall e altre canzonetteL’attesa per il ritorno degli Oasis, e la balla colossale sulle generazioni

Questo non è un articolo sulla reunion dei fratelli Gallagher (prima del prossimo litigio), questo è un articolo sulle frasi sceme da squarciagolare (oltre che su di me)

AP/Lapresse

Questo non è un articolo sul fatto che i fratelli Gallagher fanno ciò che fate voialtri – fingere di sopportare un parente al quale sputereste in un occhio – ma lo fanno non in cambio d’una noiosa cena di Natale ma d’un notevole fatturato. Questo è un articolo sul fatto che, di tutte le truffe che ci siamo fatti propinare dall’americanizzazione dell’occidente, quella della tassonomia delle generazioni è veramente la più colossale.

La prima volta che mi hanno aperto davanti un microfono della radio avevo ventiquattro anni, e al mio fianco c’era un rispettabile rockettaro (Paolo Damasio in arte Mixo, che all’epoca mi pareva un vegliardo e avrà avuto sì e no trentacinque anni: credo fosse di questo che parlava Einstein, quando parlava del fatto che il tempo è relativo).

Quando mi avevano fatto ascoltare le canzoni che avremmo mandato in onda – le playlist, che all’epoca era una parola che si usava solo tra addetti ai lavori, prima che iniziassimo a parlare tutti un orrendo italiano fatto di gerghi anglofoni – io, che persino più di ora ascoltavo solo Fossati e Paolo Conte, e la mia idea di pezzo ritmato e rumoroso era la versione di “Un altro giorno è andato” fatta da Guccini in piazza Maggiore, avevo commentato: c’è troppa batteria.

Ci eravamo guardati e ci avevamo messo tre secondi di mutuo consenso a decidere: sarei stata quella lì, quella che Mixo manda i Led Zeppelin e lei dice «c’è troppa batteria», quella lì funziona, perché sbatterci a cercare un’altra incarnazione. Restò poi così per tutti gli anni in cui parlai alla radio: quello che si intendeva di musica era sempre qualcun altro (ho amiche che a questo punto direbbero che era un abuso perpetrato su di me dal patriarcato).

Ricordo perfettamente l’anno in cui mandavamo “Song #2”, che era molto più rumorosa di “Beetlebum” e che mi complessava assai: ero dovuta andare a controllare il testo per capire che quello strascinamento di vocali era un «easy». Credevo di sapere l’inglese, e invece arrivava Damon Albarn e mi dimostrava che manco un «it wasn’t easy» ero in grado di decrittare.

Nei venticinque anni trascorsi da allora, ho imparato a diffidare dalle mie coetanee che dicono di aver sempre preferito i Blur. Nei casi migliori, è una questione ormonale: Albarn è oggettivamente più belloccio di Liam e Noel Gallagher. Nei casi peggiori, è perché dirsi della curva Blur serve a posizionarti come l’intelligente del gruppo (non ho niente contro l’intelligenza, ma non ho mai visto un[’]intelligente smaniare per posizionarsi come intelligente).

Non ho, invece, alcun ricordo di aver mandato in onda canzoni degli Oasis, e qui veniamo al mio “Rashomon” riguardo agli Oasis. Ci sono due versioni di quando io abbia ascoltato per la prima volta “Wonderwall”, che è riuscita nell’audace impresa di diventare una delle mie canzoni preferite nonostante l’handicap di averla io ascoltata per la prima volta da adulta e nonostante essa contenga due versi d’un’imbecillità inaccettabile per un pubblico che abbia superato i quindici anni («Maybe you’re gonna be the one that saves me» e «I don’t believe that anybody feels the way I do about you now»: già a venticinque, fuor di canzonetta, sai che non ti salva nessuno e che tutti ma proprio tutti provano le stesse banalità che provi tu).

Se date retta alla maiuscola storia come maiuscolamente scritta da me, l’ho sentita la prima volta nella puntata di “Girls” in cui Lena Dunham la canta nella vasca, e poi sui titoli di coda c’è la versione vera. Prima di dirvi cosa dice la storia minuscolamente scritta da altri, la storia di me e di “Wonderwall”, devo fare una divagazione.

Uno degli elementi su cui non c’interroghiamo abbastanza nel quadro di quanto velocemente sia cambiato il mondo negli ultimi anni è la parabola di Lena Dunham. Accadeva, nel secolo precedente, che ci fossero successi pazzeschi di gente che poi a stento ci ricordavamo d’avere seguito, come accade ora con Chiara Ferragni.

Quello che non mi pare accadesse è che qualcuno non solo col successo ma con lo stratosferico talento di Lena Dunham passasse dall’essere la figura più rilevante della cultura popolare a una di cui dire «ah, ma è ancora viva?». Certo, c’entra il suo aver fatto cose più di nicchia, ma è pieno di gente di cui non ci siamo dimenticati quando ha deciso di non poterne più del pubblico generalista.

Qualche settimana fa qualcuno ha messo su un social una pagina di giornale di dieci anni fa. L’avevo scritta io, e ovviamente non ne avevo alcun ricordo, ma rileggendo mi sembrava un articolo arrivato da Marte. Il tema era il femminismo pop, Beyoncé, Chimamanda, e a un certo punto si citava Taylor Swift. Per riferire, definendola «cantautrice seguitissima dalle adolescenti» (chi ve l’avrebbe detto, genitori che vi precipitate a impararne le canzoni a memoria, che solo dieci anni fa sui vostri giornali toccasse spiegarvi chi fosse), che aveva detto d’essere diventata femminista dopo che l’amica Lena Dunham le aveva spiegato il femminismo.

Solo dieci anni fa, Swift era una graziata dalla benevolenza di Dunham. Una settimana fa, Lena ha pubblicato una storia Instagram dal concerto londinese di Taylor, e dietro di lei c’era Meg Ryan, e sembravano reperti di epoche parimenti remote. Solo che il successo di Meg arrivò vent’anni prima di quello di Lena.

Rashomon, mica ve ne sarete dimenticati. Dicono i miei biografi volontari che no, quella di “Girls” non può essere la prima volta, giacché cinque anni prima Jay Z era stato insultato da uno dei Gallagher (scusate, non sono mai riuscita a capire chi insulti chi e in che termini, e quindi chi sia chi; so solo l’unica cosa che è importante sapere, cioè che nei beati anni della Cool Britannia quello che stava con Patsy Kensit era Liam).

Il qualunque Gallagher fosse aveva detto che il marito di Beyoncé non poteva aprire Glastonbury perché era un rapper (gli inglesi prendono molto sul serio i confini del rock’n’roll e del loro festival più prestigioso), e quello aveva risposto aprendo Glastonbury (che i miei coetanei più mitomani chiamano «Glasto» per ostentare confidenza) con “Wonderwall”. E io lo so che questa storia l’avevo seguita, e ricordo pure che il mio commento all’epoca fu «Certo, perché una canzone sua che la folla conosca e squarciagoli mica ce l’ha» (“Empire State of Mind” è uscita l’anno dopo, e comunque è troppo veloce per squarciagolarla).

Ma ciò non significa che avessi sentito “Wonderwall”, per due ragioni. La prima è che Jay Z la fece praticamente cantare alla folla (una modalità in cui, se non le conosci già, delle canzoni non ne cogli niente), e la fece in medley. Cioè: un pezzo di quella, e poi un pezzo d’un’altra. Quando sarò capo del mondo, i medley saranno reato universale, e Vasco “La nostra relazione” o ve la farà tutta o niente.

La seconda ragione è persino più remota di Lena Dunham, tra i modi in cui è cambiato drasticamente il mondo. È esistito un tempo in cui c’era già l’internet, c’era già YouTube, c’era già Google, c’erano già i social, ma andare a cercare le cose non era automatico. Potevi passare un’intera cena a discutere del bisticcio tra un qualche Gallagher e il marito di Beyoncé, senza illuderti che spolliciando alla ricerca del reperto saresti diventato più informato, più colto, più in pari con gli eventi del mondo. Lo so: a raccontarlo oggi, non sembra neanche vero.

Comunque: era il 2008, la volta di Glastonbury; il 2013, la volta di “Girls”. Quindi, la storia maiuscola e quella minuscola divergono nel ricostruire se io abbia sentito per la prima volta a trentacinque anni o a quaranta la canzone di successo inarginabile che tutti ma proprio tutti avevano sentito quand’era uscita, in un disco che era in vendita due settimane prima ch’io compissi ventitré anni.

E questo era il mio trattato sulla spasmodica attesa dei miei coetanei per il ritorno degli Oasis, e sul fatto che, per quanti tomi io abbia scritto sull’essere la mia la generazione più imbecille di tutti i tempi, per quante lagne faccia ogni ufficio del personale sull’essere quella attualmente trentenne la generazione più incapace di lavorare di tutti i tempi, per quante volte ci ripetiamo che nessuna generazione è stata sessuofobica come quella di chi ha quindici anni oggi, ecco, le generazioni le fanno i comuni consumi culturali. E, se erano troppo frammentati per essere territorio comune nel 1995, figuriamoci oggi.

Quindi stasera tornate a casa, date una carezza a vostra moglie, e ditele che non la porterete a sentire Noel e Liam, e non perché forse bisticceranno di nuovo prima di fatturare (mica i mutui si pagano da soli); neppure perché forse non sono io quello che ti salverà dalla trap; ma per una ragione altamente filosofica: ha detto quella tale che scrive sul giornale che le generazioni non esistono. Che forse è quel che arrivi a credere quando torni quindicenne abbastanza da pensare frasi accettabili solo da squarciagolante: che nessuno provi le cose specialissime che provi tu.

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