Nulla cambia nella strategia jihadista e sanguinaria di Hamas con la decisione di nominare Yahya Sinwar a capo dell’ufficio politico, al posto di Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran dal Mossad. Cambia però, e molto, la tattica e soprattutto la narrazione mediatica, elemento fondamentale per il movimento jihadista.
Dal 2017, dopo una profonda crisi interna, Hamas ha deciso di presentarsi al mondo con due facce: quella intransigente, feroce, di Yahya Sinwar, nominato allora capo politico della Striscia di Gaza, volto che ha avuto la sua rappresentazione più completa nell’eccidio di ebrei del 7 ottobre 2023; e quella moderata, diplomatica, disposta al compromesso, al costruire fasi intermedie, di Ismail Haniyeh – sino ad allora a capo del governo di Gaza. Il tutto, rappresentato da un fondamentale documento politico, steso appunto nel 2017 che, per la prima volta, indicava l’accettazione da parte di Hamas, come fase intermedia, della formazione di uno Stato palestinese nei soli territori della Cisgiordania e di Gaza, un compromesso fino ad allora sempre nettamente rifiutato.
Beninteso, il documento del 2017, ribadisce che l’obiettivo strategico di Hamas è la costituzione di uno Stato islamico dal Libano e dalla Siria fino all’Egitto, insomma la distruzione e l’eliminazione dello Stato di Israele. Ma introduceva una sostanziale fase tattica, di passaggio, addirittura adombrava una sorta di trattativa con Israele.
Questo documento non sostituiva lo Statuto fondativo di Hamas, non dichiarava obsoleto il richiamo all’Hadith di Maometto che indicava che «l’ultimo giorno non verrà fino a quando l’ultimo ebreo non sarà ucciso dal musulmano», né tutti i feroci propositi islamisti in quello Statuto enunciati. Si poneva solo a fianco dello Statuto stesso, come sua articolazione tattica. Il ruolo di Haniyeh come capo dell’ufficio politico, a cui nel 2017 bruscamente era stato sottratto il comando politico di Gaza, è stato dunque negli ultimi sette anni quello di incarnare la svolta tattica definita nel nuovo documento.
Il totale fraintendimento da parte di Benjamin Netanyahu dei progetti strategici di Hamas, gli stessi errori marchiani dello Shin Bet e dell’Idf nel non prevedere, e quindi nel non contrastare, il pogrom del 7 ottobre, vanno appunto fatti risalire a una lettura errata di quel documento.
La dirigenza israeliana, infatti, riteneva – sbagliando – che la svolta tattica, la disponibilità a una qualche trattativa ipotizzata dal documento del 2017 fosse reale e definitiva. Pensava che fosse possibile cronicizzare senza danni la crisi con Hamas, al prezzo massimo del lancio di qualche razzo dalla Striscia di tanto in tanto.
In realtà si trattava dell’ennesimo episodio di Taqiyya, di dissimulazione, di nicodemismo prodotto da un gravissimo errore politico commesso da Ismail Haniyeh. Questi, infatti, assieme a Khaled Mashal e a Musa Abu Marzuq, nel 2015 aveva schierato massicciamente Hamas in Siria al fianco dei Fratelli Musulmani in armi nel tentativo di rovesciare il regime di Bashar al Assad.
Così facendo Hamas era entrata in rotta di collisione con l’Iran degli ayatollah che invece ha salvato il regime siriano dall’offensiva militare dei Fratelli Musulmani, costretti a una sconfitta militare netta. Enorme il contraccolpo nei vertici di Hamas per questa sconfitta che lo aveva portato quasi alla rottura dei rapporti con un Iran che invece era considerato alleato militare e politico indispensabile per l’armamento bellico della Striscia. Da qui la brusca rimozione dal vertice di Gaza di Haniyeh e di Mashal, quest’ultimo relegato al ruolo di rappresentanza all’estero, e la nomina di Sinwar al vertice politico e militare di Gaza.
Col pogrom del 7 ottobre e con la presa di oltre duecento ostaggi, Sinwar ha polverizzato il documento di Hamas del 2017, ha dimostrato che la strategia essenziale di Hamas non ammette trattative o mediazioni, ma solo la strategica distruzione della “Entità Ebraica”, come peraltro indicano gli iraniani.
Sino alla sua uccisione, però, Ismail Haniyeh aveva rappresentato, soprattutto per la campagna mediatica di Hamas, una sorta di ipotetica alternativa a Sinwar. Con la sua densa rete personale di contatti internazionali era il personaggio ideale per ipotizzare una responsabilità condivisa di governo di Hamas in futuro, terminata la guerra di Gaza.
Lo stesso accordo di “unità nazionale” palestinese, sciaguratamente siglato con Abu Mazen a Pechino il 23 luglio scorso, andava in questa direzione. Ma ora, con l’assunzione da parte di Sinwar oltre alla carica di leader di Gaza anche del ruolo di capo del movimento le ambiguità sono finite. La leadership di Hamas è nelle mani di un macellaio. Si avrà a che fare con lui e con la sua legge di sangue. I giochini ambigui di Abu Mazen non hanno più spazio. O con Sinwar il macellaio, o contro di lui.