Il cortile e il pianetaL’ambientalismo progressista tentato dalla crescita economica

La sfida della transizione verde consiste nel trovare un bilanciamento tra obiettivi climatici e ambientali, riducendo le disuguaglianze sociali. Il tempo, però, stringe: bisogna accelerare, scoprire, costruire e riconvertire, come in una vera rivoluzione industriale. E una buona parte dell’ecologismo, meno incline a splendide utopie, lo sta capendo

AP Photo/LaPresse (ph. Eric Gay)

Nella prima metà del 2023, a distanza di poche settimane, due testate giornalistiche dal posizionamento politico diverso hanno pubblicato una copertina molto simile, con due obiettivi strettamente connessi: sostenere la necessità di una transizione ecologica allineata alla crescita economica e superare quello che la destra italiana, spesso in modo stucchevole, definisce «ambientalismo dei No».

«Abbracciare i piloni, non gli alberi: la crescita di cui l’ambientalismo ha bisogno», recita la cover dell’Economist, settimanale britannico di orientamento liberale e spesso critico nei confronti dei movimenti ecologisti, della settimana tra l’8 e il 14 aprile 2023. Secondo l’articolo di apertura del giornale, per stabilizzare il clima globale bisogna smettere di usare i combustibili fossili e aumentare notevolmente la produzione di elettricità, incrementando gli investimenti per adattare le reti elettriche esistenti alle esigenze del pianeta. «Il cambiamento climatico non può essere affrontato semplicemente con i valori centrali dell’ambientalismo classico. Coloro che sono più ansiosi di fare la transizione energetica devono riconoscere che la linea d’azione più pratica consiste nel costruire di più», si legge. 

«Sì, nei nostri cortili: è tempo che i progressisti si innamorino del green building boom», è invece il testo della copertina del numero di Mother Jones, storica testata della sinistra statunitense, di maggio e giugno 2023. Il riferimento ai cortili è un chiara provocazione verso gli esponenti della filosofia Nimby, Not in my backyard (non nel mio cortile), che continuano a ostacolare una diffusione capillare delle energie pulite.

La cover story di Mother Jones è firmata da Bill McKibben, classe 1960, uno dei padri dell’ambientalismo moderno. «Sono un ambientalista, il che significa che sono allenato a dire di no», scrive all’inizio il fondatore di 350.org, che dopo una quindicina di righe entra nel vivo del suo ragionamento: «Ma ora siamo in un momento cruciale, in cui per risolvere i nostri più grandi problemi, ambientali ma anche sociali, dobbiamo dire di sì ad alcune cose: pannelli solari, turbine eoliche, fabbriche per produrre batterie e miniere per estrarre litio». Anche McKibben, quindi, non vede nella decrescita una soluzione adatta al problema climatico. 

@AlecStapp / X

Questione di bilanciamento
Le copertine delle due testate testimoniano che l’ambientalismo progressista è di fronte a un dilemma non irrilevante, privo di soluzioni universali e certe: il bilanciamento tra gli obiettivi climatici e gli obiettivi ambientali, entrambi fondamentali per dare un futuro al pianeta che ci ospita ormai da un po’ di tempo. I primi riguardano la riduzione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, metano e così via) per mitigare il cambiamento climatico, e una delle vie per riuscirci consiste nell’accelerare l’installazione di impianti a energia rinnovabile. I secondi, invece, includono la protezione della biodiversità, la tutela del paesaggio e della natura, lo stop al consumo di suolo e la valorizzazione delle economie locali.

La temperatura media globale è sempre più alta e gli eventi meteorologici estremi sono sempre più frequenti, intensi e lunghi: abbandonare i combustibili fossili e passare alle energie pulite è la chiave per rallentare la corsa dell’emergenza climatica e permettere alle popolazioni più vulnerabili di adattarsi a questo nuovo mondo, ma – al tempo stesso – non possiamo deturpare dei paesaggi naturali per fare spazio a turbine eoliche o pannelli fotovoltaici. Anche perché un ambiente eccessivamente antropizzato è meno capace di reagire ai fenomeni estremi connessi alla crisi climatica: è un cane che si morde la coda.

Quindi, nel 2024, sei più progressista se metti in primo piano la questione climatica o la protezione degli habitat naturali? Sei più progressista se sostieni la transizione ecologica/energetica attuale – inevitabilmente inserita nel perimetro delle logiche capitalistiche – o se sposi un’idea intrigante ma utopica di decrescita felice? Come sempre, la parola chiave è: equilibrio. Ed è proprio l’equilibrio il grande assente nell’attualità della Sardegna, il vero laboratorio italiano del bilanciamento tra target climatici e ambientali.

Cosa ci insegna il caso sardo
Sull’isola, dove il fenomeno Nimby ha spesso trovato terreno fertile, c’è un’aspra opposizione delle comunità locali nei confronti degli impianti rinnovabili, soprattutto per apparenti ragioni paesaggistiche e di consumo di suolo. Una fetta importante dell’opinione pubblica ritiene che le pale eoliche siano più del necessario: colpa di una speculazione energetica che, sfruttando anche i finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), non avrebbe mai messo al primo posto la tutela dell’ecosistema sardo. 

La giunta regionale di centrosinistra, presieduta da Alessandra Todde (Movimento 5 Stelle), ha spesso definito questa situazione un «far west» ricco di «vuoti normativi». Per invertire la tendenza, fermare la speculazione e stilare un nuovo piano (più rigoroso) sulle aree idonee alle rinnovabili, la presidente della Regione ha approvato una moratoria di diciotto mesi sull’installazione di nuovi impianti a energia pulita. Il governo centrale di centrodestra ha poi deciso di impugnare il provvedimento – ritenuto in contrasto con le norme statali ed europee – davanti alla Corte costituzionale. 

In questa storia così intricata, la posizione delle grandi associazioni ambientaliste è allineata rispetto al pensiero espresso da Bill McKibben su Mother Jones: qualche volta bisogna dire «sì». «La moratoria sulle fonti rinnovabili che la Regione Sardegna ha appena varato rappresenta un grave passo falso rispetto agli obiettivi di transizione energetica e decarbonizzazione pure sostenuti dalla presidente Todde. Proporre oggi un blocco alle fonti rinnovabili non solo è anacronistico, ma rischia di essere poco responsabile», hanno scritto Greenpeace Italia, Legambiente, Kyoto club e Wwf Italia in un comunicato congiunto. 

Per riassumere: una giunta regionale di centrosinistra decide di fermare le rinnovabili, il governo nazionale di centrodestra è contrario e impugna il provvedimento, e le principali associazioni ambientaliste danno ragione all’esecutivo di Giorgia Meloni, scontrandosi con i comitati locali. Una vicenda a primo impatto surreale, senza precedenti, ma che trova spiegazioni logiche ripercorrendo le tappe della complessa storia d’amore tra l’isola e le rinnovabili.

Non ci resta che crescere?
«È assolutamente giusto proteggere la propria comunità e il proprio quartiere. Se non lo fai tu, nessun altro lo farà. Ma non viviamo solo in una comunità; viviamo anche su un pianeta in cui il carbonio oltrepassa i confini giurisdizionali poco dopo che lo abbiamo immesso nell’aria. E quindi proteggere il proprio cortile da qualsiasi cambiamento deve essere bilanciato con il costo che imporrà al “tutto”», recita un passaggio essenziale del pezzo di McKibben.

Le copertine dell’Economist e di Mother Jones mostrate all’inizio sono uno specchio dell’evoluzione del dibattito attorno ai temi “verdi”. Un dibattito che vede convergere, anche se non integralmente, posizioni una volta inconciliabili: pensate ad esempio a cosa sta accadendo in Sardegna con Legambiente, Wwf e gli altri grandi gruppi ambientalisti. 

I liberali (Economist), sostenitori del libero scambio e della globalizzazione, si sono definitivamente accorti delle opportunità economiche delle rinnovabili e dell’edilizia verde; hanno capito che i combustibili fossili non hanno futuro e che la transizione energetica è una rivoluzione industriale green da affrontare con senso d’urgenza, senza però abbandonare le dinamiche competitive (talvolta predatorie) alla base del sistema economico attuale. Secondo il pezzo dell’Economist, infatti, la domanda di elettricità non può che aumentare, e noi dobbiamo farci trovare pronti.

I cittadini che votano e pensano a sinistra (Mother Jones), che sposano una forma di ambientalismo decisa ma non radicale, stanno capendo che la lotta al cambiamento climatico è anche una partita industriale ed economica: per raggiungere i target imposti dalla scienza bisogna accelerare, costruire, riconvertire e – come scrive McKibben – «un po’ di passione Nimby (Not in my backyard, ndr) dove essere sostituita da un po’ di entusiasmo Yimby (Yes in my backyard, ndr), o almeno da un po’ di acquiescenza». Tutto ciò deve trovare concretezza grazie a un bilanciamento versatile, privo di ideologie e capace di assottigliare le diseguaglianze, altrimenti sarebbe l’ennesima occasione persa per rendere il mondo un posto più equo. 

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