Zanele Muholi è una delle figure più influenti e, al tempo stesso, controverse dell’arte contemporanea africana. Le sue opere sono state esposte in prestigiose gallerie e musei in tutto il mondo, tra cui la Biennale di Venezia, Documenta 13 a Kassel e il Museo Guggenheim di New York.
Un lavoro, il suo, fondamentale nella lotta contro l’omofobia, la discriminazione razziale e la violenza contro la comunità LGBTQ+. Per il contributo all’arte e ai diritti umani, infatti, Muholi ha ricevuto numerosi premi, tra cui il Prins claus award e il Fine prize for an emerging artist alla Biennale di Venezia. E fino al 26 gennaio 2025 sarà protagonista di una grande retrospettiva (con oltre duecentocinquanta opere) alla TATE Gallery di Londra.
Nata nel 1972 a Umlazi, in Sudafrica, ha iniziato i suoi studi a Johannesburg, proseguendoli presso la Ryerson University di Toronto, in Canada. Definirla semplicemente “artista” o “fotografa” sarebbe riduttivo: Muholi stessa preferisce identificarsi come “attivista”. Recentemente, inoltre, ha iniziato a esplorare nuove forme espressive come la pittura, la scultura e il ricamo, ampliando così i mezzi attraverso cui raccontare le sue storie e raggiungere un pubblico più vasto.
Il lavoro di Muholi si distingue per la sua intensa esplorazione di temi legati all’identità di genere, all’orientamento sessuale e alla razza, con un’attenzione particolare alla comunità LGBTQ+ sudafricana. Il suo impegno, sia sul piano artistico che attivista, trae ispirazione dalle sue esperienze personali di discriminazione e pregiudizio come donna lesbica e nera. Le influenze artistiche di Muholi sono varie, ma una figura centrale nella sua vita e nella sua arte è stata sua madre, una saldatrice che ha imparato il mestiere dal padre di Muholi. Crescendo, ha osservato la madre lavorare con il metallo, un’esperienza che ha profondamente influenzato il suo percorso artistico, ora riflesso nelle sue opere in bronzo.
Nonostante le sue dichiarazioni e il personaggio – a tratti forzato e poco spontaneo, fino a risultare a volte teatrale e artefatto – è indubbio che la fotografia rappresenti il suo principale mezzo espressivo. Attraverso di essa, Muholi riesce a documentare e dare voce a storie e identità spesso marginalizzate. I suoi ritratti, intimi e potenti, hanno sensibilizzato il pubblico sull’importanza dei diritti LGBTQ+, promuovendo l’inclusione e il rispetto per le diverse identità sessuali, sia in Sudafrica che a livello internazionale.
Nel corso della sua carriera, Muholi ha realizzato numerose serie fotografiche che hanno ottenuto un riconoscimento globale, forte del personaggio che l’artista ha sempre creato intorno a sé e forte della battaglia che incarnano. Muholi ha iniziato la serie di autoritratti, abbandonando temporaneamente i ritratti di altre persone «perché non vediamo abbastanza di noi stessi negli spazi in cui interagiamo». Dopo anni trascorsi a fotografare altri, Muholi sentiva la necessità di vedersi, di ricordarsi e di riconnettersi con la propria identità, essendo il suo lavoro profondamente radicato nelle esperienze personali condivise con la comunità LGBTQ+. Gli autoritratti sono così diventati uno strumento per guarire dai traumi personali, creando un ciclo di guarigione che parte dall’arte, attraversa il mondo e viene consumato dagli altri.
Nel suo lavoro, Muholi predilige spesso il bianco e nero, una scelta estetica che nasce dall’amore per questa tecnica scoperta durante i suoi studi. Con la sua gamma di toni generosi e meno controversi rispetto alla ruota cromatica RGB, il bianco e nero permette a Muholi di creare immagini che esprimono il suo linguaggio dell’amore e diventano spazi di guarigione. Del resto, un tema centrale nella ricerca artistica e personale di Zanele Muholi è la memoria, come forma di cura. Le sue opere non sono create solo per essere osservate, ma per essere vissute, con l’obiettivo di far riaffiorare nel pubblico le emozioni provate nel momento in cui le ha viste per la prima volta.
Muholi è convinta che la memoria sia profondamente legata a ciò che l’occhio percepisce nell’istante presente. Attraverso le sue immagini, l’artista cerca di lasciare un’impronta indelebile nella psiche degli spettatori. Che sia per il loro carattere straordinario o per un’inquietudine, le opere di Muholi mirano a diventare ricordi impossibili da dimenticare.
Forse è proprio per questa ragione che l’impostazione teatrale riveste un ruolo così fondamentale nel suo lavoro. L’artista non racconta solo una singola storia, ma la storia universale della discriminazione, una narrazione che attanaglia l’umanità e che trova eco nelle esperienze di coloro che sono stati emarginati e oppressi. Queste pose ostentate, poco spontanee e piuttosto scenografiche permettono di trascendere il singolo racconto personale, trasformando le sue opere in una potente denuncia visiva delle ingiustizie, e allo stesso tempo in un atto di resistenza e affermazione dell’identità.
Le sue immagini non sono soltanto ritratti, ma performance che invitano lo spettatore a confrontarsi con la realtà brutale della discriminazione, spingendolo a ricordare e riflettere su queste esperienze condivise, in modo da non poterle mai più ignorare.
Il dolore rappresenta così il motore da cui sempre parte l’artista: non si tratta di un concetto astratto, ma di una componente essenziale della vita quotidiana. Con profonda consapevolezza, Muholi riconosce come il dolore venga affrontato e condiviso all’interno delle comunità, e sottolinea l’importanza di questa condivisione per renderlo più gestibile, evitando così di esserne completamente sopraffatti dalle sofferenze. Questo modo di intendere e fare arte permette di esplorare il dolore personale, ma anche collettivo, trasformandolo in un atto di resistenza e guarigione.