Fine agosto non è un buon momento per la lucidità italiana, sarà che torniamo dalle smanie della villeggiatura con dieci lavatrici da fare, sarà che sono troppi mesi che fa caldo, sarà quel che sarà. A fine agosto del 2008 iniziò a girare, per l’accaldata internet italiana, un fotomontaggio in cui Sarah Palin – in quel momento candidata alla vicepresidenza degli Stati Uniti – era sulla copertina di Vogue.
Non ci sarebbe cascato neanche un cieco, e non solo perché la foto era montata male. La grafica della testata non era quella di Vogue America. La copertina reale di Vogue America del febbraio 2008, quella sulla quale secondo la falsificazione ci sarebbe stata Palin, si trovava in quattro secondi di ricerche, e lì non c’era la governatrice dell’Alaska ma un’attrice. Non ci sarebbe cascato neanche un cieco: ci cascarono tutti.
Il pomeriggio in cui circolava in rete la copertina finì subito sul sito di Repubblica, il giorno dopo sulla prima pagina della Stampa, e nelle pagine interne del Corriere. Quelli che non vogliono ammettere che questo sia il secolo più comodo e privilegiato della storia dell’uomo vi diranno che è perché i giornalisti ormai sono pagati pochissimo e non hanno tempo di fare le verifiche, ma per accorgersi che era un falso non servivano verifiche: servivano gli occhi.
Avanzamento veloce di sedici agosti, e rieccoci. Sui social gira una copertina di Vogue Algeria con Imane Khelif. Questa volta la verifica della falsificazione è un po’ più complessa: non è possibile controllare cosa ci sia davvero sul Vogue Algeria di questo mese per la bizzarra ragione che Vogue Algeria non esiste (incredibile, un paese così fondamentale per l’industria della moda non ha una testata dedicata).
Esiste un Vogue Arabia, sulla cui copertina non c’è Imane coi guanti da pugile. La copertina falsa viene condivisa con entusiasmo o spernacchiamenti non dalle due categorie dei ciechi e dei vedenti, ma – come sempre, come tutto – a seconda del posizionamento ideologico: se ritieni Imane Khelif un baluardo dei diritti e dell’apertura mentale, sarai entusiasta; se ritieni che tua figlia non sia campionessa di qualche sport per colpa dei transessuali, farai commenti sarcastici. (Se non te ne frega granché dei trans ma vuoi collocarti a sinistra, dirai che dicono che è un uomo perché sono razzisti).
È tutto così, ormai, devo averlo scritto almeno quattrocento volte negli ultimi anni, è tutto tifoseria e quindi non meraviglia più di tanto che lo siano anche i delitti. Sharon Verzeni è morta un mese fa accoltellata da un tizio che neanche la conosceva. Cosa ci dice la sua morte, a parte il solito caro vecchio ripeterci che niente può salvarti dal momento di sfiga? Cosa ci dice il delitto compiuto da uno che, con problemi psichiatrici, era a zonzo in un paese che si percepisce progredito perché ha la legge Basaglia, invece di sentirsi terzo mondo perché ha solo dieci posti letto in reparto psichiatrico ogni centomila abitanti?
Cose diverse a seconda del posizionamento ideologico. Da una parte: eh lui sì che ha un problema psichiatrico, mica Turetta. Dall’altra parte: eh però prima che matto è nero, prima che italiano è nero, prima che raptus è nero. A volte mi viene il sospetto che posizionarsi a destra o a sinistra sia comodo quanto cambiare il lessico: una scappatoia da ogni tentativo di non dico risolvere ma almeno affrontare i problemi veri.
Certo che era un problema psichiatrico anche quello di Turetta, e certo che i raptus esistono, checché ne dicano le ideologhe di Instagram per cui è colpa del patriarcato (altra entità astratta cui è comodissimo dare le colpe risparmiandosi la fatica d’affrontare i problemi concreti).
L’altra sera a Bologna m’hanno raccontato una rissa da film, in cui tutti menavano tutti, un tizio girava con un cacciavite, e non si vedeva nessuno dei poliziotti che fino a cinque minuti prima erano impegnati a multare eventuali ambulanti che vendessero senza permesso (il catalogo dei diversivi per scansarsi dai problemi veri è lungo).
La cosa che aveva più colpito la testimone oculare che mi ha raccontato la scena è che fosse una donna a dare gli ordini su chi dovesse menare chi (leggo su BolognaToday che era la proprietaria del cane il cui morso iniziale aveva scatenato il tutto: non c’è più la malavita d’una volta). Non sarò io ad approfittarne per dire: ve l’avevo detto, che il patriarcato è sepolto, ed è un ottimo momento per approfittarsi dell’essere donne e prendersi con prepotenza tutto.
Mi aspetto che oggi la notizia della rissa sia arrivata anche fuori regione, e prevedo che nel dibattito social le posizioni saranno: per gli animalisti, aveva sicuramente ragione il cane; per la sinistra, Bologna comunque città più accogliente d’Europa; per la destra, essendo la tizia rumena, qualcosa come: eccerto, continuiamo pure a far entrare tutti, guarda che degrado.
(L’altro giorno ho assistito a una conversazione social tra gente che diceva che a Bologna non si può più girare e quand’eravamo giovani sì che si stava sicuri sotto i portici. Se non morivi di eroina o di terrorismo, c’erano in effetti meno mendicanti e barboni e poveri disperati d’ogni sorta).
L’unica nota che mi sento di aggiungere al dibattito sulla rissa bolognese ma soprattutto sull’uccisione della Verzani è: il problema dell’integrazione è irrisolvibile. Non l’hanno risolto negli Stati Uniti, dove gli africani sono cominciati ad arrivare quattrocento anni fa da schiavi, dove il segregazionismo è finito da sessant’anni, eppure il discorso razziale è ancora così centrale che Michelle Obama al congresso di partito ha detto che a Trump dava fastidio che lei e Barack fossero due laureati di successo incidentalmente neri (per inciso, a me non è parso sensatissimo come espediente retorico: con quel che costa l’università negli Stati Uniti, l’effetto-casta è dietro l’angolo, e i soldi sono un fattore antipatizzante ben più della razza).
Figuriamoci noi, che gli schiavi abbiamo iniziato a importarli da tre quarti d’ora, e perdipiù con la spocchia di fingere di non considerarli tali, di fingerci – se presentabilmente di sinistra – ciechi all’etnia perché abbiamo avuto United Colors of Benetton come faro culturale negli anni di crescita, di fingerci – se volgarmente di destra – oppositori del diverso colore della pelle o della diversa religione perché non vogliamo dire che ci fanno orrore perché poveri e disperati, figuriamoci noi se possiamo pensare di trovare una soluzione a un problema persino più esteso della mancanza di letti in psichiatria. Di risolverlo adesso, poi, che fa un caldo micidiale e non c’è neanche più la scusa che sia agosto.