Sesso politicoDi che cosa non abbiamo parlato quando abbiamo parlato di Imane Khelif

Un dibattito pubblico dove tutti dicono tutto senza alcuna competenza o conoscenza, ma sempre perfettamente in linea con la propria curva tribale

AP/Lapresse

Questo non è un articolo sul pugilato, tema di cui mi frega meno di zero. Non è neppure un articolo sulla Meloni e su Salvini, di cui mi frega un po’ di più ma che non c’entrano nientissimo col tema della settimana. Non è neanche un articolo su quanto, in un secolo d’intellettuali scarsi, quelli italiani siano i più scarsi di tutti (oddio, forse un po’ su questo lo è).

Questa è una storia di corpi contrapposti alle percezioni, di pavlovismi e simpatie e antipatie, d’incapacità d’analisi, cazzotti, acronimi. Ma, soprattutto, è una storia di Barry Goldwater, sensibilità a casaccio, e chirurgia sperimentale.

La regola Goldwater è una linea guida etica della psichiatria che negli ultimi anni è stata parecchio trascurata. Si chiama così perché un giornale sessant’anni fa intervistò degli psichiatri per sapere se Barry Goldwater fosse psichicamente idoneo a fare il presidente. Quello poi perse, contro Lyndon Johnson, fece causa, vinse, e – come qui già detto di recente, gli americani hanno sempre bisogno che il buonsenso venga messo per iscritto – nacque una specifica regola che dice che gli psichiatri non possono diagnosticare gente che non hanno visitato.

Si direbbe che non esistesse più, la regola Goldwater, considerato che abbiamo passato gli ultimi anni a leggere diagnosi di demenza e altre amenità prima di Trump e poi di Biden, sempre da gente che li aveva al massimo visti in tv. Di sicuro non esiste – diamo troppe cose per scontate: pensavamo non servisse – una regola scritta che imponga di poter fare diagnosi endocrinologiche solo a gente di cui tu abbia visto la cartella clinica, e quindi eccoci qui, reduci dalla settimana in cui senza vedere uno straccio di esame ci hanno tutti propinato le loro certezze su una pugile che fino a una settimana fa nessuno sapeva esistesse.

È trans, no ha i testicoli interni, no è intersessuale, no è donna ma col testosterone alto, no è uomo altrimenti essendo algerina porterebbe l’hijab, no è donna perché il padre ha fatto vedere una foto da piccola, no è uomo perché c’è stata la squalifica per il cromosoma, no è donna perché quelli che l’hanno squalificata sono russi quindi brutti e cattivi, no è uomo perché quello che l’ha ammessa era testimone di nozze del primo ministro laburista, no è donna perché Salvini merda – eccetera, mi sono sicuramente persa alcune delle interpretazioni, tutte fornite con la prosopopea di chi sa, mica di chi specula.

Ora, figuratevi se tutto ciò può fare impressione a me, che sono cresciuta nella Bologna degli anni Ottanta, quando i prodotti locali più rinomati erano l’eroina e Eva Robin’s, della quale si poteva ancora scrivere «all’anagrafe Roberto Coatti», perché nessuno s’era inventato l’imbecille concetto di «deadnaming» e le parole servivano ancora per capirsi e non per segnalare che ci si collocava tra i buoni.

Eva, che era così spiritosa da mettersi come cognome d’arte un genitivo all’uccello, e così squisitamente femminile che ci sembrava incredibile avesse un bigolo nelle mutande, era un ermafrodito. Parola scomparsa giacché le parole non servono più per capirsi ma per far sapere a tutti che abbiamo fatto inglese alle medie e quindi: intersex. O anche DSD, che tutti fingono di sapere cosa significhi (è l’acronimo angolofono per i disturbi della differenziazione sessuale).

Non è colpa di nessuno, cioè è colpa di tutti. Di noialtri che abbiamo il terrore di sentirci dare dell’antiquato (in neolingua: boomer) e quindi fingiamo di credere che essere uomo o donna dipenda da altro – la sensibilità, la percezione, i giocattoli che avevamo da piccoli – e non dal corpo. Persino nello sport. Persino quando il video più guardato di queste olimpiadi è quello del saltatore che fallisce il punto perché sbatte con l’uccello sulla sbarra, e mai è stato più evidente che ci sono cose che è tutto da dimostrare esistano – la psiche, l’identità di genere – e cose che esistono palesemente: i sessi, i corpi. Ma non divaghiamo dal pugilato femminile, di cui torneremo a disinteressarci dopo queste Olimpiadi e di cui non ci eravamo mai interessate fino alla scorsa settimana.

Nello specifico, di questa storia vale la pena parlare per una sola implicazione, e – ma tu pensa – non è quella su cui si sono concentrati tutti, ovvero quella degli schieramenti politici. A nessuna persona non dico pagata per svolgere mansioni intellettuali ma anche solo normodotata può importare qualcosa se Angela da Afragola è o non è la cocca di Giorgia Meloni. E invece, ohibò, si parla solo di quello.

Gente che tre minuti prima ci spiegava che la nuotatrice che era contenta d’essere arrivata quarta rappresentava un nuovo splendido mondo di atlete sensibili e che rinnegavano la società della performance, gente per cui se uno ti fischia per strada ledendo la tua sensibilità va punito col 41 bis, gente per cui il safe space è un concetto sacro e guai a chi osa turbarti con parole che ti siano invise, poi ha passato giorni a prendere per il culo una ragazza in lacrime per non so cosa. Non lo so, per cosa piangesse Angela Carini, come non lo sanno loro – per la forza del cazzotto ricevuto? Per l’umiliazione di ritirarsi al primo round? Per il calo di tensione? Perché non riusciva a fare lo spelling di «intersex»? – però loro sanno che comunque ella rappresenta l’eccezione al divieto di prendere per il culo chicchessia. Lei sì, perché non è di noi dei buoni.

Gli stessi che per giorni ci hanno detto che i parlamentari francesi facevano bene a non voler stringere la mano ai lepenisti, così si fa, non come noi schifosi collaborazionisti coi politici di sinistra che addirittura giocano a calcio per beneficenza con quelli di destra, noi fascisti ereditari, quegli stessi poi vogliono i campi di rieducazione per la pugile che si ritira dall’incontro e non dà la mano all’avversaria.

Sono gli stessi che ci hanno spiegato per giorni, col tono di chi ha studiato, che tutta la polemica su Imane da Sougueur che sarebbe stata trans l’aveva lanciata Salvini, e tutti noi allocchi ad abboccare. Però io della pugile non donna l’ho letto per la prima volta sul Guardian, in un articolo pubblicato ventisei ore prima del primo tweet di Salvini. Il Guardian, il gazzettino dei buoni. Il Guardian, che sta alle menate sull’identità di genere come Torre di guardia sta ai Testimoni di Geova. Nessuno è più al di sopra di ogni sospetto del Guardian, nel parlare di una cosa che, due giorni dopo, il delirio collettivo trasformerà in propaganda dei cattivi.

La domanda è: Salvini avrà scoperto questa storia da quello stesso articolo? Una non vorrebbe sospettare che foste talmente ignoranti e abituati ad aprire solo le piattaforme dei cuoricini che persino Salvini legge più di voi, però ce la costringete.

L’altro dettaglio che ho amato è il servizio della tv francese a casa Khelif, col padre di Imane che fa vedere una foto di lei da piccola e un libretto compilato a mano che sarebbe il certificato di nascita con scritto che è femmina. Ho pensato a me vestita in salopette e capelli corti a tre anni: quindi se da piccina eri maschiaccio – se hai avuto la botta di culo d’essere piccina in anni in cui essere maschiaccio non induceva a riempirti di ormoni, ma ti permetteva da grande di diventare Katharine Hepburn – poi da grande i tuoi non potranno dimostrare che hai diritto di partecipare alle Olimpiadi femminili: come faranno a far vedere ai signori della tele la foto in cui avevi i capelli lunghi e le bambole?

Ma soprattutto ho pensato a quel disgraziato che affittava un appartamento in Cadore e che un mese fa si è visto linciare dall’internet dei buoni in quanto antisemita. Era successo che, a una famiglia che chiedeva come funzionasse il forno nell’appartamento, avesse risposto con un messaggio che parlava appunto del forno, e che il traduttore automatico aveva per la famiglia tradotto in ebraico. Era successo che qualcuno avesse deciso che quello avesse scritto «tornate nei forni crematori», giacché nessuno di noi sa leggere l’ebraico ma a tutti preme indignarsi per l’indignazione del giorno. Ecco: è a questa nostra attendibilità che è affidata la traduzione d’un certificato di nascita scritto in arabo, e quindi il giudizio etico sulle gare femminili alle Olimpiadi.

Dopo queste cento righe di premesse, è forse giunto il momento di dire quali sarebbero state le ragioni giuste per interessarsi a questa storia, e quali i punti su cui ragionare se non avessimo la classe intellettuale più scarsa del mondo. Non i russi, non la Meloni, non il fatto che Imane Khelif è stata «socializzata come donna» e quindi ha diritto di gareggiare con le donne (giuro, l’ho sentito in un video dell’Ultimo Intellettuale, e ho desiderato di morire pensando che quindi stava dicendo che, se l’avessero cresciuta facendola giocare col meccano, ora picchierebbe più forte e andrebbe squalificata; ho pensato anche che forse l’Ultimo Intellettuale lo diceva senza rendersene conto, come spesso accade con le frasi fatte, e che, se si potesse risorgere, Simone de Beauvoir lo farebbe per dirci «ma io mica pensavo foste così scemi da fraintendermi fino a questo punto»).

L’unico punto su cui andava aperto un ragionamento erano le competizioni femminili, presentando questo caso un elemento in più rispetto a situazioni come quella di Lia Thomas. Quando vedevi la nuotatrice trans, assai meno femminile di Eva Robin’s, troneggiare tipo orco su un podio dove la seconda e la terza erano chiaramente non del suo stesso sesso, pensavi fosse iniquo.

Quando ieri, dopo aver letto nell’editoriale di Camilla Long sul Sunday Times che tutte e tre le atlete sul podio degli ottocento metri a Rio de Janeiro nel 2016 erano DSD, sono andata a guardare le immagini, ho pensato che forse bisogna arrendersi: per fare l’atleta ad alti livelli devi essere uno scherzo di natura, una disgraziata che trasforma un problema in opportunità e scopre che coi testicoli interni corre più forte o nuota più veloce.

Però c’è un problema diverso, nel caso della Khelif, e lo intuisce anche il mio fruttivendolo ma non gli italiani pagati per capire il mondo. Che se c’è un vantaggio ormonale – e ripetiamolo: nessuno di noi sa se c’è, visto che la cartella clinica nessuno di noi l’ha vista, e continuiamo a intervistare medici che tirano a indovinare non avendola vista neanche loro – la boxe non è il nuoto né gli ottocento metri. Non rischi di arrivare seconda: rischi di prendere un pugno che t’ammazza.

Non è la questione di sensibilità per cui quelli d’uno schieramento dicono che è inaccettabile discriminare i trans escludendoli, e quelli dell’altro schieramento dicono che è inaccettabile che le vere donne siano destinate a perdere le gare femminili: è una questione di sicurezza vera, non psicologica.

Sarebbe interessante capire se queste benedette cartelle cliniche le abbia viste almeno il comitato olimpico. Si direbbe di no, vista la lunare linea tenuta finora. Prima Mark Adams, capo della comunicazione delle Olimpiadi e, per il pubblico interessato alle alleanze, testimone di nozze di Keir Starmer, è riuscito a dire che il fatto che Khelif sia femmina lo dimostra il suo passaporto (sui miei documenti c’è scritto che sono un metro e sessantacinque, per dire l’attendibilità).

Poi Thomas Bach, presidente del comitato, dice in conferenza stampa che «questa non è una questione di DSD», con successivo comunicato correttivo «intendeva dire che non è una questione di transgender». Naturalmente non è colpa sua, è che le parole non vogliono più dire niente, non servono più a capirsi, e se dici «trans» puoi stare parlando d’un uomo che a quarant’anni decide di mettersi la parrucca e il rossetto ma come atleta resta uomo, o di qualcuno che prende ormoni femminili da quando ne aveva undici e non ha mai attraversato una pubertà maschile e ha quindi mutilato i suoi vantaggi in forza e velocità: guzzantianamente, di tutto e di niente.

Fatto sta che grande confusione e pochissimo cielo. Unica cosa certa – una non vorrebbe sempre dire «ve l’avevo detto», ma: ve l’avevo detto una settimana fa – è che l’iniquità a scapito delle donne è un tema, e la sinistra è così imbecille da lasciare che se lo accaparri la destra.

Quando Adams dice che certo non si può tornare agli orrendi vecchi metodi, ovvero al tampone salivare da cui determinare il Dna e quindi il sesso, lo dice senza un senso che non sia quello di non farsi dare dell’antiquato dai sacerdoti dell’identità di genere: il metodo che determinerebbe con certezza se puoi o non puoi gareggiare con le donne non va bene giacché è un metodo che ci ricorda che i mammiferi sono di uno dei due sessi – che anticaglia, che poca postmodernità, che prigione razionale.

Figuriamoci poi gli intellettuali di questo nostro derelitto paese, così preoccupati che i figli – che credono in Babbo Natale, nella fatina dei dentini, e nell’identità di genere – li considerino dei boomer da non sforzarsi mai mai mai di capire le questioni che hanno davanti. Figuriamoci i nostri editorialisti dalla parte dei buoni, intenti a ripetere pavlovianamente che è uno schifo, è la fasciosfera, è Putin, è Pillon, senza mai mai mai riuscire a vedere altro da: come s’incasella questa vicenda nelle pagine dei retroscena politici? Cosa potrà mai andar storto.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter