Io non vorrei sembrare sempre il solito vecchio arnese marxista, ma l’unica cosa che m’interessa, delle vicende di maltrattamenti coniugali presunti che hanno avuto spazio nei notiziari italiani di recente, l’unico dettaglio che vorrei sapere, e che ovviamente nessuno ha riportato, è il particolare dei soldi.
Compaiono, infatti, negli stessi giorni, due notizie che hanno alcune cose in comune, la prima delle quali è l’ormai insanabile slabbratura del concetto di celebrità. Due uomini avrebbero maltrattato due donne, e gli uomini vengono trattati come fossero noti. Non ho mai sentito nominare nessuno dei due, e non solo io ma nessuna delle persone cui passo giorni a chiedere «e ora chi è questo?».
Uno dei due è d’una fama da reality, un tipo di fama sulla quale andrebbe scritto un trattato. Una volta sapevamo i nomi, e con «noi» intendo: noi con un interesse medio alla cultura popolare, noi che non vivevamo con la tv accesa ma un occhio ogni tanto lo buttavamo, noi sfogliatrici di rotocalchi. Ho iniziato a sentirmi inadeguata quando ho smesso di sapere i nomi dei tronisti.
Lino di “Temptation Island”, uno di due edizioni fa che seguo su Instagram come altre vanno in palestra, per esercitarmi a non dimenticarmene, ogni tanto fa lunghi monologhi su un certo Alfonso, che ogni volta io penso sia Signorini e invece no, è non ho capito quale altra carne da fama provvisoria che adesso concorre al “Grande fratello” (adesso? Prima? C’è un “Grande fratello” in corso? Quanti quesiti teologici, e che poca preparazione da parte mia).
Ogni volta che Lino nomina questo Alfonso, che parla delle sue corna o di non ho capito quali sue vicende, io devo chiedere a qualcuno chi sia questo. Una volta li sapevo tutti, poi sono diventati troppi. Si può diventare irrilevanti prendendo molto più spazio nel mercato? Certo che si può, è forse l’unico modo certo in cui avviarsi all’irrilevanza.
Insomma c’è uno che avrebbe fatto non ho capito quali cose turpi alla fidanzata, credo pure lei carne da reality, l’hanno arrestato poi rilasciato, Fabrizio Corona ha deciso che quello era il suo gettone di fama per questo mese e quindi si è appropriato della vicenda instagrammando surreali registrazioni di telefonate col suo avvocato, coi suoi amici, telefonate in cui questi dicono cento volte «non mi fido, tu mi registri», «mi raccomando, non mi registrare», e io non ho mai smesso di trasecolare da quella volta di Fedez e del primo maggio: com’è possibile che la gente parli con altra gente che sa benissimo la registrerà e pubblicherà e tuttavia ci parli comunque?
Forse è una compulsione all’esibizionismo, d’altra parte l’avvocato di questo tizio ha un Instagram che mi fa improvvisamente sembrare frati trappisti certi avvocati che ho avuto io che passavano più tempo a dare interviste che a preparare le arringhe. Ma torniamo ai soldi (non che ce ne siamo mai allontanati): come campano quelli il cui curriculum è aver fatto un reality?
Sì, le inaugurazioni delle discoteche, le televendite su Instagram, so tutto, vivo in questo secolo, ma è – di nuovo – una domanda che attiene alla saturazione del mercato: se c’è più carne da reality che clientela per la carne da reality, non è che a qualcuno di questi prima o poi toccherà – orrore – trovarsi un lavoro vero?
L’altro caso di violenza presunta sulle donne riguarda uno teoricamente distantissimo da questo pezzo di società, e in realtà adiacente. Uno che tutti definiscono senza mettersi a ridere «filosofo», e a me ogni volta torna in mente quella volta in cui da piccina sentii dire a Stefano Bonaga «filosofo è chi influisce sulla storia della filosofia», e sono passati quarant’anni e sono quarant’anni che rido ogni volta che vedo qualche vivente lasciarsi scrivere «filosofo» nelle note biografiche.
Insomma questo tizio, che come l’altro né io né nessuno di coloro con cui parlo avevamo mai sentito nominare prima di questa vicenda, questo tizio che come tutti pubblica libri, questo tizio di cui né io né altri abbiamo mai letto una riga ma del quale improvvisamente è necessario parlare come fosse Sciascia perché se fingiamo che sia una figura importante del panorama culturale allora non saremo gente che parla d’una roba minore accaduta a figure irrilevanti, se fingiamo che Sartre abbia bancato di botte la de Beauvoir allora la gente cliccherà sulla nostra indignazione, questo tizio viene processato per le accuse della ex.
Nel mezzo del processo, arriva una delle centomila fiere culturali che assediano questo derelitto paese, che però tenace resiste nel suo analfabetismo. Questa fiera qui si chiama “Più libri più liberi” (il 41 bis, vi prego, per i giochi di parole), e si svolge a Roma. La dirige Chiara Valerio, che ha invitato questo tizio a presentare un suo recente libro (trecentonove copie vendute nelle prime due settimane, per dare la misura del tutto).
Scandalo, indignazione, accuse di tradimento dell’ereditarietà murgiana. Chiara Valerio era amica di Michela Murgia, ed è quindi ritenuta priva del diritto d’avere idee proprie su un qualsivoglia tema; è ritenuta protesi murgiana nonostante sia stata praticamente l’unica della corte, a Murgia viva, a dimostrare una personalità propria; giorni fa qualcuno mi ha detto «adesso Chiara Valerio si ricrede su tutto, anche sulla schwa», e io ho pensato a lei che prende per il culo la schwa dall’altare, durante l’orazione funebre di Murgia, e ho pensato che non c’è argine alla determinazione dell’umanità a proiettare l’idea di te che hanno fino a oscurare quel che fai e dici davvero.
Oltre alla Murgia, c’è pure l’aggravante Giulia Cecchettin: la fiera è dedicata (qualunque cosa significhi) alla memoria della ragazza uccisa dal suo ex, e questo è ovviamente uno di quei casi in cui è bene piangere sé stessi: hai collaborato alla delirante convinzione che essere stata uccisa sia non una clamorosa sfiga ma qualcosa che rende una poracrista culturalmente rilevante, ed ecco che questo delirio ti si rivolta contro, ed ecco la lapidazione dei «come puoi invitare un violento a una cosa che porta il nome della vittima per eccellenzaaaa». Ma non è questo il punto che m’interessa.
Come tutte le fiere e i festival, “Più libri più liberi” ha due modalità. Una minore, in cui si muovono quelli per cui le cose di lavoro si fanno per lavoro, e quindi retribuite, e che alle fiere e ai festival ci vanno dietro compenso (gli intellettuali che si rifanno al modello Lino di “Temptation Island”, tendenzialmente più marxista dei filosofi autocertificati). E una più diffusa, legata al terrore dell’intellettuale italiano di divenire invisibile, alla smania d’essere ovunque, in ogni cartellone di festival, in ogni scaletta di talk-show, nell’indice d’ogni rivista senza budget. Di esserci gratis, acciocché quella partecipazione gratuita lo faccia notare da altri committenti gratuiti che potrebbero chiedergli di andare altrove in cambio d’un bicchiere di prosecco sgassato.
E quindi è tutto molto interessante, il dibattito sulla presunzione d’innocenza, sulla Costituzione, sul diritto di parola del tizio sotto processo (e forse persino dei tizi già condannati), è tutto avvincentissimo, ma io vorrei sapere solo: per questa fiera dalla quale alla fine si è ritirato per sedare l’indignazione postfemminista, questo tizio l’avrebbero pagato? Perché io sono disposta a indignarmi se, per una vicenda non ancora conclusa, un tizio viene privato d’una parte del suo fatturato annuale. Se invece viene leso solo il suo diritto a comparire nelle storie Instagram di chi nel weekend va alle fiere culturali, ecco, in questo caso se non vi scoccia io per l’indignazione salterei un giro.