Cicatrici colonialiLe mancate compensazioni della corona britannica per le atrocità nei Paesi del Commonwealth

Negli ultimi anni le richieste di risarcimento danni per la schiavitù sono diventate più pressanti. In un recente incontro con i leader degli Stati dell’ex impero, il primo ministro Starmer si è dichiarato contro l’idea pagare diciotto miliardi di sterline per ricucire le ferite del passato

Il primo ministro britannico Keir Starmer al Commonwealth Heads of Government Meeting (Chogm) ad Apia, Samoa (AP/Lapresse)

Negli ultimi decenni, le dinamiche geopolitiche globali hanno subito trasformazioni profonde, plasmate in larga misura dalle complesse eredità del colonialismo e dalle sue persistenti conseguenze. Lo dimostra il percorso verso l’indipendenza intrapreso dalle ex colonie britanniche a partire dal secondo dopoguerra.

Dall’indipendenza dell’India nel 1947 ai più recenti movimenti indipendentisti in vari paesi africani e caraibici, le lotte per la libertà e la sovranità nazionale hanno visto molti popoli opporsi al dominio coloniale britannico, portando alla creazione di nuove nazioni autonome. Tuttavia, con l’indipendenza è emersa anche una crescente consapevolezza delle ingiustizie subite durante il periodo coloniale. 

La decolonizzazione, infatti, non ha semplicemente portato all’emergere di stati sovrani, ma ha anche stimolato una riflessione profonda sulle cicatrici lasciate da secoli di sfruttamento. Negli ultimi anni, questa consapevolezza si è trasformata in richieste sempre più insistenti di risarcimenti per la schiavitù e le atrocità commesse in nome dell’impero britannico.

Il recente Commonwealth Heads of Government Meeting (Chogm), tenutosi la settimana scorsa sull’isola Samoa, nel Pacifico, ha prepotentemente fatto emergere queste richieste. Durante l’incontro, al quale erano presenti anche re Carlo III e il primo ministro britannico, Keir Starmer, alcuni leader dei Paesi del Commonwealth, specialmente quelli caraibici, hanno insistito che si parlasse di compensazioni per la schiavitù dei decenni passati.

Molte di queste nazioni sono, oggi più che mai, consapevoli del loro percorso storico, e determinate a ottenere riparazioni per le sofferenze subite durante il periodo coloniale. «Non possiamo semplicemente ignorare ciò che è successo per secoli: sfruttamento, schiavitù e sottrazione di risorse», ha dichiarato durante il summit a Samoa un portavoce del gruppo Commonwealth of Nations Alliance. 

Le richieste di riparazioni inoltrate al governo di Londra, che alcuni stimano attorno ai diciottomila miliardi di sterline, sono accompagnate da un movimento politico, specie tra le nuove generazioni di leader del Commonwealth, che mettono in discussione il ruolo moderno della Gran Bretagna e suggeriscono che la famosa età imperiale britannica si sia conclusa definitivamente. Questo nonostante alcuni nel Regno Unito, ancora, fatichino ancora a riconoscerlo.

La resistenza del governo britannico a considerare le richieste di risarcimento è infatti significativa. Il primo ministro Starmer ha affermato che il Regno Unito è «molto chiaro» nella sua posizione: non pagherà le riparazioni richieste. Durante il summit a Samoa, Starmer ha insistito sul fatto che vuole «guardare avanti» piuttosto che avere «discussioni molto lunghe e infinite sulle riparazioni del passato», preferendo affrontare «sfide reali qui e ora su questioni come il clima». «Preferirei rimboccarmi le maniche e lavorare con loro i Paesi del Commonwealth, ndr] sulle attuali sfide future piuttosto che dedicare molto tempo al passato», ha dichiarato Starmer. 

Questa posizione ha portato a una crescente frustrazione tra le nazioni del Commonwealth, che vedono il rifiuto di Londra come un atto di negazione di un passato doloroso. Le affermazioni di Starmer, sebbene mirate a mantenere l’unità nazionale, rischiano di allontanare ulteriormente i legami storici che hanno unito la Gran Bretagna alle sue ex colonie.

Tali discussioni sulla giustizia riparatrice non solo stanno contribuendo a definire il futuro del Commonwealth, che ha preso in mano la narrazione, ma hanno anche contribuito a dare nuova rilevanza a questo raggruppamento di nazioni che, per molti versi, è sì un residuo dell’impero britannico ma anche una nuova potenza a se stante. 

Un esempio lampante è la mancata partecipazione al Chogm di leader chiave come il primo ministro indiano, Narendra Modi, e il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, cosa che ha suscitato ulteriori riflessioni sulla rilevanza di Londra nel contesto geopolitico attuale. Entrambi i leader, due dei più potenti capi di governo del Commonwealth, hanno scelto di non partecipare al vertice, optando invece per incontri bilaterali con altre potenze emergenti come Cina e Russia. 

«È chiaro che il Commonwealth non rappresenta più un vincolo o una priorità per nazioni come l’India», ha commentato un analista politico durante il vertice. «Questi Paesi, che un tempo erano legati al dominio britannico, oggi fanno emergere nuove alleanze e collaborazioni globali, dimostrando come il Commonwealth sia per loro ormai solo un lontano retaggio coloniale». Non si tratta di semplici casi isolati, ma di un segnale di un cambiamento significativo nei rapporti di potere a livello globale.

Lo Sri Lanka, ad esempio, che ha recentemente presentato domanda per entrare a far parte dei Brics, non ha inviato alcun rappresentante al summit di Samoa. Nemmeno il Canada, nonostante sia uno degli alleati più stretti del Regno Unito, ha inviato il suo primo ministro o ministro degli esteri in rappresentanza. 

Il Chogm di quest’anno ha chiaramente mostrato che il Commonwealth è molto più di un mero simbolo di un passato coloniale. La diversità dei suoi membri, che rappresentano quasi un terzo della popolazione mondiale, è un potenziale enorme per il futuro globale. Oltre agli esempi di potenze mondiali come India, Canada e Sudafrica, anche le nazioni più piccole, come molti dei Paesi caraibici, stanno cercando di far sentire la propria voce in un contesto globale sempre più dominato da poteri emergenti. 

Paradossalmente, l’uscita dall’Unione Europea non ha fatto altro che rimettere in luce le contraddizioni insite nella relazione tra il Regno Unito e le sue ex colonie: se l’Ue viene percepita come una minaccia alla sovranità, il Commonwealth rappresenta oggi una minaccia al ruolo britannico come guida morale e geopolitica per i Paesi che ne fanno parte. «La Brexit è stata un ritorno al passato», ha dichiarato a Politico Harshan Kumarasingham, docente di politica e storia presso l’Università di Edimburgo. «Ma ironicamente, questo ritorno ha sollevato nuove ombre sul peso della storia britannica, proprio quando il Paese si sentiva di nuovo sovrano e indipendente». 

Oggi il Regno Unito è chiamato a fare i conti con il suo stesso retaggio imperiale, con il difficile compito di accettare che molte delle sue ex colonie vedano nel Commonwealth più un simbolo di repressione che un’occasione di collaborazione.

Riconoscere le responsabilità storiche sarebbe un primo passo per creare relazioni più paritarie e moderne con i membri del Commonwealth. Tuttavia, ciò richiederebbe un confronto doloroso con il passato e un impegno che il governo britannico sembra non essere disposto ad assumere.

In un’epoca di rapidi cambiamenti e nuove alleanze globali, il futuro del Regno Unito e del Commonwealth dipende dalla capacità di entrambi di lasciare andare il passato, costruendo nuove relazioni basate su rispetto e cooperazione piuttosto che su antichi legami di dipendenza. La vera fine dell’impero britannico potrebbe dunque risiedere nella capacità di riconoscere questa realtà e di muoversi verso una visione internazionale basata su collaborazioni autentiche, non più come il retaggio di un impero decaduto, ma come partner paritario di un mondo sempre più interconnesso e competitivo.

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