A un certo punto l’inviata che Mentana ha mandato nella sede della campagna elettorale del centrodestra dice qualcosa tipo (sintesi con parole mie) «sì vabbè, Guazzaloca, ma si sa che in Emilia non c’è storia», ed è allora che mi ricordo di quella frase di Edmondo Berselli alla quale avevo pensato per tutta la campagna elettorale per le regionali.
Perché fino a quel momento stavo pensando a me (strano!), mi stavo chiedendo quanto devo essere stata asina per non avere la più pallida idea di quale sia la risposta alla domanda: Elena Ugolini è stata una mia prof? Elena Ugolini, candidata del centrodestra a queste supplettive regionali, e prof in uno dei molti licei dai quali sono passata in quei cinque anni di somaraggine acuta. Somaraggine così pervasiva che neanche mi ricordo i nomi dei professori.
(Qualche mattina fa, in un bar di Bologna, un professore universitario che non so come si chiamasse ma diceva solo cose meravigliose con accento russo e vorrei scrivere sette stagioni di serie televisiva su di lui, raccontava alle sue amiche che non tollera quando gli studenti abbreviano chiamandolo «prof»: «Io mica ti chiamo “stud”»).
A Berselli, che evidentemente aveva preso la scuola più sul serio di me, avevo pensato molte volte, a quell’agognata ricreazione – «primo giorno di vacanza dopo cinquant’anni di scuola» – con cui aveva sintetizzato il 1999, il candidato di centrodestra che vince le elezioni a sindaco di Bologna, avevo pensato per tutta tuttissima la campagna elettorale.
Perché già il dover fare le supplettive a me pareva indizio di pochissima serietà: significa che Bonaccini l’hai mandato in Europa perché ti servivano i nomi noti per poi poter dire che avevi fatto un buon risultato, ma i buoni risultati si fanno per governare, e se poi quello che sta governando una regione lo levi appena ti serve il nome di richiamo sei una cialtrona.
Al cui proposito – della segretaria del Pd e della sua ipotetica cialtroneria – più della pigrizia di tornare a Bologna e scoprire che fine avesse fatto la tessera elettorale, più della convinzione profonda che mi guida a ogni elezione (ma mica vinceranno o perderanno per un voto, ma perché devo incomodarmi), più di tutto su di me ha influito una conversazione avuta venerdì a Milano, una conversazione che appunto verteva sull’ipotesi di andare a Bologna a votare.
È andata più o meno così. La mia amica: però per favore non votare la Meloni, piuttosto non votare ma la Meloni no. Io: ma magari, a perdere l’Emilia, è la volta che si svegliano. La mia amica: ma sono morti, cosa vuoi che si sveglino.
La mia amica, quella convinta che il Pd sia morto, vota saldamente Pd, così come altri amici che ne dicono peste e corna ma poi lo votano con l’ineluttabilità con cui fanno il Natale con parenti che detestano. Ho il solido sospetto che ormai i voti di sinistra siano questa roba qui, questa roba che in Emilia-Romagna è diffusissima: il «vabbè, ma che altro dovrei votare» fatto rituale, che produce cotechino eterno a Natale e alle elezioni («cotechino eterno» ovviamente l’ho arrubbata a Berselli).
Un altro amico, anche lui della corrente «il Pd è morto ma cos’altro vuoi che voti», ma con residenza in Lombardia, di recente mi parlava benissimo di Michele de Pascale, da ieri nuovo presidente della regione Emilia-Romagna, e fino a un attimo prima sindaco di Ravenna (oddio, ma quindi altre supplettive? Ma gli elettori di sinistra non si lamentano mai che le supplettive si facciano «con le mie tasseeee»? Ma un candidato che non abbia già un altro ruolo che poi lascia scoperto non ce l’hanno proprio mai?).
Gli avevo raccontato quel che ho già scritto settimane fa, che de Pascale l’avevo conosciuto a una cena collocata tra la seconda e la terza alluvione in un anno e mezzo, quella cena durante la quale aveva detto che dopo la seconda alluvione gli era venuto il sospetto di portare sfiga (dopo la terza a me è venuto il dubbio che, se voti il partito che ti ha lasciato allagare per tre volte in un anno e mezzo, il partito che l’unica cosa che sa fare è ripetere «eh, ma non aveva mai piovuto così tanto», allora il tuo fideismo è incurabile).
L’amico mi aveva detto che de Pascale aveva fatto benissimo come sindaco di Ravenna, e che tutti loro che si ostinano a prendere sul serio il Pd ci puntavano molto per il dopo-Schlein, Schlein della quale non ho mai incrociato un sostenitore (chissà quanto sono rappresentativi i miei incontri), Schlein che tutti quelli con cui parlo non vedono l’ora si levi di mezzo, Schlein che però, in caso di vittoria emiliana, si sarebbe intestata il tutto, e quindi era un comma 22: se de Pascale perde persino l’Emilia, come fa poi a proporsi come segretario del Pd; però, se de Pascale vince l’Emilia, la segretaria del suo partito si rafforza ed è inutile proporre un successore.
Non ho mai guardato un sondaggio (Berselli riferiva che non li guardò neanche Guazzaloca nel 2004, trovandosi sconfitto a sorpresa da Cofferati; io, non essendo candidata ma soffrendo di delirio d’onnipotenza, non lascio mai che i dati influenzino il mio impressionismo), ma l’unico momento in cui ho pensato che gli emiliani avrebbero potuto votare il partito che li lasciava allagare una volta a semestre è stata la vittoria del centrodestra in Liguria.
Se non voti quegli altri neanche se le elezioni si fanno perché il presidente di quella coalizione lì l’hanno arrestato; se non voti quegli altri neanche se la coalizione tua candida uno che sta morendo; se qualunque cosa succeda tu continui a votare per abitudine, allora ha ragione quel tassista bolognese che una volta mi ha detto che del sindaco Matteo Lepore non ci si poteva liberare perché «qua la gente vota come votavano i suoi nonni». Forse le analisi del voto americano, la liturgia dell’alternanza per cui dopo un democratico votano un repubblicano e viceversa, forse quelle robe lì sono come la mancanza di stato sociale e i quattrocento tipi di CocaCola aromatizzata nei supermercati: qui non possono attecchire.
«Il segno, secondo gli osservatori più sconsolati, che il famoso modello emiliano era agli sgoccioli; e che a Bologna, e di lì a poco nelle altre città, come in una catastrofica caduta di birilli, per esaurimento politico o realizzazione di un karma specifico, se ne sarebbe parlato al massimo come di un capitolo sperduto in un vecchio libro di storia», scriveva Berselli, ma “Quel gran pezzo dell’Emilia” usciva vent’anni fa, e ancora qui stiamo, all’immarcescibile modello emiliano.
Si intravede, arrubbo ancora a quel Berselli di vent’anni fa, «la fisionomia del cotechino eterno, della mortadella immutabile, del tortellino primigenio, quello ricavato come impronta dell’ombelico di Venere. Per noi serve a contemplare commossi, nel ciclo delle reincarnazioni, l’eterno ritorno del dribbling perfetto».
Forse, possiamo recuperare dalle analisi americane un dettaglio. Elena Ugolini non sappiamo se sia stata mia prof ma sappiamo che è una donna. Come Kamala Harris. Come Silvia Bartolini, candidata per il centrosinistra nel 1999, cioè l’unica volta in cui a Bologna sia riuscito a vincere il centrodestra. Tutto passa, tutto cambia, ogni cotechino eterno è soggetto a rivolgimenti, tranne uno: le donne non le votiamo neanche nel secolo del «dai, mettiamoci una donna così sembriamo moderni».