«Hai fatto tutto questo casino per uno di cui neanche sai il nome? E pensi ancora che il prossimo presidente debba essere una donna?». Lo dice Alec Baldwin a Tina Fey, è il 2007, è un altro mondo: non solo Hillary Clinton non ha ancora neppure perso le primarie contro Barack Obama, ma si possono ancora fare battute sui due che sovrintendono alla reputazione dei neri famosi in America: Oprah Winfrey e Bill Cosby.
“30 Rock” è la serie che Fey si è scritta e di cui è protagonista, e che come accadrà moltissime altre volte nei successivi diciassette anni viene presa per un riscatto delle donne, quando tutte le dinamiche della storia convergono a dire: le donne, senza che le soccorra un uomo, non sanno neanche trovarsi il culo con le mani, figuriamoci governare qualcosa.
«Se l’Isis aprisse un servizio di streaming chiedereste al vostro agente di organizzarvi un incontro. Quindi, se stasera vincete un premio, non approfittatene per fare dichiarazioni politiche: non siete nella posizione di fare la predica agli elettori, non sapete niente del mondo reale, avete passato a scuola meno tempo di Greta Thunberg». Lo dice Ricky Gervais alla gente famosa ospite della premiazione della stampa estera di Hollywood, è gennaio del 2020, dieci mesi dopo ci saranno le elezioni ma le vincerà Biden e quindi nessuno si porrà il problema che Gervais avesse ragione e del parere politico dei ricchi e famosi freghi solo ai loro commercialisti.
«Prego quel che mi dice Oprah di pregare», aveva detto nel 2007 Liz Lemon, il personaggio di Tina Fey, rispondendo a una domanda sulla sua religione. Doveva essere più o meno il periodo di quella visita di cui raccontava Quincy Jones, che era amico dei Clinton ma a un certo punto gli era arrivata a casa Oprah con gli Obama, a citofonare chiedendogli di cambiare candidato.
Avanzamento veloce al 2024, e la polemica è: se la democrazia era in pericolo, perché Oprah ha chiesto un milione di dollari per salvarla? «C’è una bella differenza, tra implicare che Oprah si sia fatta pagare un milione per presenziare, e la realtà di pagare un ampio gruppo di persone per produrre uno speciale televisivo», ha scritto giorni fa un critico culturale, avendo ragione e avendo torto.
Mercoledì Tmz è andato a molestare Oprah, la quale ha detto macché, mai preso soldi, né dalla campagna elettorale né da Harpo. Harpo è la società produzione di Oprah Winfrey, che ha organizzato l’incontro pubblico con Kamala Harris di fine settembre in Michigan, quello di cui forse vi ricordate perché fu la volta in cui la candidata disse che certo che ha una pistola in casa e certo che se qualcuno prova a entrare gli spara. Forse il momento più americano dell’intera campagna elettorale, più di Trump che frigge patatine.
Dunque Harpo ha preso un milione di dollari (ci sono i bilanci della campagna elettorale che lo dicono) per i costi di una roba per condurre la quale Oprah non si è fatta pagare. Oprah che di Harpo è fondatrice e amministratrice delegata. E certo, la gente che ha lavorato all’organizzazione di quella serata andava pagata, il redattore che si è accertato che ci fosse su Zoom Chris Rock collegato da Londra e quello che ha aperto l’audio a Julia Roberts, ma non poteva pagarli Oprah Winfrey, che non so se sia ancora la donna più ricca d’America ma insomma il campionato quello è?
Non cambia niente e hanno perso comunque, ma non è tanto normale che l’elettore che ha versato dieci o venti dollari per contribuire a una campagna elettorale («infrange ogni record nelle donazioni alla campagna» erano le parole con cui, quella sera, Winfrey introduceva Harris) poi scopra che, per quel milione di dollari che sta al bilancio familiare di Oprah come i venti dollari stanno al suo, nessuno abbia pensato di dire «questo facciamo che è un regalo», ecco. (Forse non si può fare per qualche cavillo legale sui finanziamenti elettorali? In quel caso consiglierei di dirlo, ché «eh ma io non ho preso il mio abituale cachet» non pare una gran giustificazione, detto da una alla quale, avrebbe detto la mamma napoletana in “Sapore di mare”, escono i soldi dalle orecchie).
Un paio di settimane prima di quella serata da un milione di dollari, Oprah era a Venezia, a un premio organizzato da Diane von Fürstenberg. Aveva ricevuto un po’ di giornalisti e le surreali cronache del giorno dopo riportavano tutte compitamente che Oprah, settantenne e miliardaria almeno da quando ne aveva quaranta, non era mai stata a Venezia. Glielo facevano tutte dire ma nessuno le chiedeva come mai – forse l’unica americana ricca per cui Venezia non sia una mèta preferenziale, e dire che va persino a Fiuggi, non si può dire che non abbia consuetudine con l’Italia – perché erano tutti impegnati a chiederle di Kamala.
Era abbastanza lunare la scelta di dare tanto spazio alle sue previsioni di vittoria di Kamala Harris, perché che può mai dirti Oprah di sorprendente sulle elezioni? Che ha improvvisamente capito che Trump non è malaccio? Che non è poi così sicura sia sensato fissarsi sull’obiettivo d’un presidente donna? Che è stata povera abbastanza da non volerlo essere mai più e da non voler mai più vedere un povero da vicino?
«E quando vinci e lui non accetta il risultato?», aveva chiesto la conduttrice ricca alla candidata di ripiego, quella sera in Michigan, in mondovisione. E certo, col senno di poi siam buoni tutti, e quando sei in campagna elettorale il «quando» al posto del «se» è una formula obbligatoria, mica puoi fomentare la folla dicendo «forse perdiamo», dicendo «non ci crediamo neanche noi».
Che i candidati siano loro stessi celebrità – come lo era e lo è Donald Trump, per cui non serve fare analisi di quanto abbiano contato l’appoggio di Joe Rogan o quello di Elon Musk, che sono copie conformi del modello «ricco e famoso impresentabile» rappresentato dal Donald: gente la cui idea di populismo è fotografarsi coi vassoi del McDonald’s sull’aereo privato – o che siano attori o cantanti e il candidato faccia altri mestieri, l’unico appoggio che potrebbe fare la differenza è uno che fosse sorprendente, e io non ne ho ancora visto uno.
Adesso che i democratici americani sono così in piena resa dei conti da sembrare la sinistra italiana, volano più stracci che a certi pranzi di Natale: una che lavorava col marito di Kamala dice che la candidata non è andata al podcast di Rogan perché sennò i più giovani nello staff della campagna se ne sarebbero avuti a male (nei prossimi giorni toccherà tornarci, su quest’illusione della sinistra d’avere facoltà di legittimare gli interlocutori); Politico racconta che da ieri quelli che lavoravano alla campagna, e che avrebbero dovuto ricevere uno stipendio fino a fine anno, non sarebbero più pagati (però gli coprono l’assicurazione sanitaria fino a dicembre, perché stiamo sempre parlando di quella grande democrazia in cui se perdi il lavoro non puoi permetterti di ammalarti); e gli ex collaboratori di Obama dicono che alla Casa Bianca c’è un gran dolo, che sapevano tutto, sapevano dai numeri quant’era impopolare l’amministrazione Biden, quanto pesava l’inflazione, quanto Kamala non piacesse a nessuno.
Ma allora, allora c’era Meryl Streep che si sbagliava e la chiamava già presidente, e noi abbiamo sì smesso di guardare a Bill Cosby come modello comportamentale (sembrano passati trecento anni), ma per il resto siamo gli stessi del 2007: la lezione di Ricky Gervais non l’abbiamo mai imparata, le celebrità sono la nostra religione, e pensiamo che davvero la fotogenia ti dia autorevolezza politica (d’altra parte, se vale per Barack Obama, perché non dovrebbe valere per gli attori?). Chissà se è il caso d’imparare quella di Alec Baldwin: ma sei proprio convinta che il prossimo presidente debba essere una donna?