Che cosa ci dice, di Kamala Harris, la foto che la nipote di Kamala Harris ha condiviso con gli sconosciuti, quella dell’ex candidata che gioca con due pronipoti, seduta per terra, dopo la sconfitta, molto ridanciana, un bicchiere di vino bianco sul tappeto chiaro?
Nulla di interessante, le banalità che può voler far sapere al pubblico una persona in quel ruolo: che la famiglia è la cosa più importante, che non lascerà che la mancata presidenza le sciupi l’allegria, che se il vino non è rosso siamo meno paranoiche rispetto ai tappeti, che deve ancora nascere l’americano con un gusto decente per l’arredamento.
Cosa ci dicono, invece, i commenti sotto quella foto, ripostata da chiunque e commentata da chiunque, cosa ci dicono non di Kamala Harris – giacché ogni sconosciuto del quale pensiamo qualcosa è una proiezione di cose nostre, uno specchio sul quale ci vediamo deformati, mica esiste in sé – ma dei commentatori?
Cosa capiamo di vongole che lasciano scritto che è pericolosissimo lasciare il bicchiere di vino a portata di bambine, che è un’alcolizzata, che avrebbe dovuto dircelo, che gli elettori hanno diritto di sapere? (Vi vedo che leggete e pensate che vongole siano gli altri, voi invece lettori avvertiti e semicolti, vongole sempre gli altri, proprio come evasori fiscali, parcheggiatori in doppia fila, raccomandati).
Anni fa Courtney Love disse che per un periodo aveva frequentato la famiglia di Will Smith, e sua figlia allora adolescente era stravolta perché loro erano «molto europei, bevono un bicchiere di vino a pranzo». Mi aveva fatto molto ridere perché non era il moralismo d’un’adolescente ma d’un’intera società, specie tra i ricchi e famosi e quindi col dovere della magrezza. Quando andavo spesso a Los Angeles ogni tanto qualcuno mi allungava un indirizzo della più vicina riunione della Alcolisti Anonimi: avevo ordinato un bicchiere di vino, certo non poteva essere perché lo preferivo alla Diet Coke, certo era perché avevo un problema.
E quindi sì, nel turbamento d’una società che non ha il gusto per niente figuriamoci per i vini epperciò concepisce la massaia depressa con la bottiglia di gin nascosta tra i detersivi ma non la tizia che bella serena si versa un bicchiere di chardonnay, nel turbamento rispetto a quel bicchiere di vino c’è anche questo elemento, certo. Ma.
Ma c’è altro e più rilevante, per capire il mondo che abitiamo. C’è il «doveva dircelo», convinzione che la tizia che neppure sa che tu esista ti debba qualcosa, e tu sappia (o abbia diritto di sapere) cose di lei che non sono esattamente quelle che lei ha deciso di dirti. C’è l’illusione di poter conoscere le vite degli altri a mezzo scrutinio dei like o utilizzo di Google. Ci sono, insomma, le relazioni parasociali, il più gran guaio di questo secolo, un guaio di cui oltretutto ci ostiniamo a non prendere atto.
A dodici anni ero convinta che John Taylor m’avesse guardata, dal palco del concerto. A dodici anni non sapevo che dal palco non si vede chi sta sotto, e che se anche si fosse visto io sarei stata una di troppe bambine isteriche che squarciagolavano “Save a prayer” (l’unica canzone dei Duran Duran di cui mi fossi mai incomodata a imparare le parole).
A sette anni compravo, nell’unico negozio del paesino di mia nonna, la spuma per capelli di Farrah Fawcett. C’era il suo faccione col suo taglio scalato sulla confezione beige, era la prima volta che vedevo un’attrice su un prodotto. Non esistevano neanche ancora le salse di Paul Newman, inventate un paio d’anni dopo. Sembra impossibile, adesso che non c’è attrice, soubrette, disperata famosetta sui social che non abbia la sua linea di cosmetici.
A dodici anni avevo dodici anni. A sette anni avevo sette anni. Il problema è adesso. Adesso che gente adulta – altro che adolescenti ansiosi – è convinta che quelli che guarda sul telefono facciano parte della sua vita. Le massaie che negli anni Cinquanta scambiavano per veri i tizi delle soap opera meritavano che la psichiatria inventasse la definizione di “parasocial interaction”? L’altra parte della disperazione che porta noi a convincerci di conoscere la gente cui abbiamo chiesto un autoscatto insieme è la disperazione di quella stessa gente ricca e famosa (o apparentemente tale), che elemosina comprate il mio libro, guardate il mio programma, votate il mio partito, e quell’elemosina la chiede nelle nostre tasche, nei nostri telefoni, parlando direttamente con noi.
(Il Partito Democratico americano manda mail personalizzate rivolgendosi agli elettori. Adesso che sono finite – male – le elezioni, e sono pure pieni di debiti perché pare si siano sputtanati i fondi in cose assurde tipo ricostruire il set d’un podcast che la Harris non aveva tempo d’andare a girare dove lo registrano di solito, adesso continuano a chiedere soldi. Un comico italoamericano che mi piace l’altro giorno ha ricevuto l’ennesima mail di richiesta fondi, e ha scritto: devo pagare io anche il funerale?).
Chi è Gianluca, e perché io non l’ho ancora cercato su Google? Di Gianluca – che spero non si chiami davvero così, perché a scorrere la sua bacheca si trova roba per la quale prendere un sacco di querele e perderle tutte – ho visto un lungo e furioso post in cui se la prendeva con l’incipit d’un mio articolo d’ottobre. Nell’incipit parlavo dell’uomo più geniale che abbia mai conosciuto, un tizio con cui lavoravo in uno dei programmi televisivi che ho scritto da giovane.
Gianluca, tragicamente privo d’informazioni che non siano quelle che gli do io su di me, vuole però convincersi di conoscermi. Va detto che io collaboro a questa sua patologica illusione persino più di quanto Albert Pinson alimentasse quella di Adèle Hugo: quando scrivi in prima persona per trent’anni, la gente si convince – quasi quanto accade quando ti vede su Instagram, o quando le chiedi fondi per la campagna elettorale – di sapere delle cose di te. E si convince anche che tu le debba la verità.
Quindi Gianluca m’insulta, sì, ma non mette mai in dubbio nessuna delle cose che dico di me (che dico a lui, proprio a lui, pensa l’adorabile picchiatello): che mi faccia delle punture nella pancia, che abbia lavorato con uno sceneggiatore di genio, che mi piacciano gli spaghetti alle vongole, che abbia letto “Via col vento” a otto anni, che non sappia nulla del calcio, che non abbia mai ascoltato una canzone di Taylor Swift, quale sia il mio albergo preferito a Londra o il mio ristorante del cuore a Milano. Non importa quale dettaglio sia reale e quale semplice funzionamento dell’io narrante, perché per Gianluca, esattamente come per la servetta che leggeva romanzi nell’Ottocento, l’io narrante non esiste. Solo che la servetta non aveva Balzac nel telefono, e nel telefono non aveva neanche migliori amici che non aveva mai visto, e quindi non diceva al mondo «ora Honoré ve lo spiego io»: Gianluca può decidere di non mettermi like, e quindi ha un rapporto con me anche se io non so chi è e non sono curiosa di scoprirlo abbastanza da andare su Google.
Dicevo, l’uomo con cui ho brevemente lavorato da giovane. Avendo io fatto sempre e solo programmi minorissimi, e che né io né gli altri ci mettiamo in curriculum (anche perché non è buon segno, se per trovare lavoro devi citare quel che facevi trent’anni fa), per Gianluca è complicato recuperare le coordinate. Se vai su Google a cercare le prima edizioni di “Fantastico”, trovi specificato che tra gli autori c’era Antonio Ricci: ma con le informazioni di nicchia come fai?
È qui che la questione si fa esilarante e al tempo stesso struggente. Gianluca spiega che io sono una poveretta perché non Nick Pileggi definisco «grande sceneggiatore», ma uno che ha fatto della roba televisiva di quart’ordine. E io vedo questi titoli che lui cita, mi chiedo cosa diamine siano, vado anch’io su Google a cercarne gli autori, e scopro che Gianluca ha deciso che il gran genio non possa che essere uno con cui mi ha visto scambiare delle battute sui social. Uno che – rispetto al tizio cui facevo riferimento in quell’articolo – fa un altro mestiere, ha un’altra età, non ha mai lavorato con me, ma non importa: per Gianluca esiste solo ciò che lui può vedere, col naso schiacciato sulle vetrine della pasticceria.
E quel che lui vede non sono le mie giornate lavorative in un altro secolo o in questo, non è il mio telefono e i messaggi e le chiamate in entrata e in uscita, non sono cose che succedono davvero: quel che lui vede è l’internet. I like, i commenti, le cose indicizzate. La sua illusione di conoscenza passa per brandelli d’informazioni che non è in grado di selezionare, la sua sazietà passa per una pasticceria i cui prezzi non si può permettere ma di cui si percepisce affezionato cliente.
Di recente un tizio mi ha intervistata a tradimento. Cioè: mi ha detto che doveva scrivere di me, e se potevo dirgli delle cose. Gliele ho pazientemente dette (lavora per uno che conosco: in Italia non si può fare la rivoluzione, eccetera), dopo aver premesso che però non aveva il permesso virgolettarmi nel suo italiano. Naturalmente mi ha virgolettata nel suo italiano (non ci si pente mai di niente con la certezza con cui ci si pente d’essere stati generosi). E a un certo punto mi ha fatto dire che odio i messaggi vocali.
C’è stata per giorni grande ilarità tra tutti coloro coi quali scambio decine di vocali al giorno, e poi ho capito: Google. Google gli aveva dato un articolo che avevo scritto anni fa lamentandomi della chat d’un programma al quale lavoravo, vocali inutili compresi. Ero stata al telefono un’ora col tizio, ma lui non aveva usato dieci secondi per chiedermi conferma che odiassi i vocali. Che bisogno ne aveva: ha Google, quindi mi conosce.
Figuriamoci Gianluca, che rispetto a questo porocristo ha l’aggravante d’essere evidentemente disturbato. E, se Gianluca ha illusioni d’intimità rispetto a me che non sono esattamente Cristiano Ronaldo, immaginiamo la vita di ogni giorno dei Gianluca del mondo. Che s’indignano se Kim Kardashian va al ballo del Met con un vestito di Marilyn Monroe perché io di Marilyn ho il poster, Marilyn mi è cara, a Marilyn tu non ti devi avvicinare. Che s’indignano se Kamala Harris beve vino perché io ho dato i miei venti dollari alla campagna elettorale e tu dovevi dirmelo, tu hai delle responsabilità nei miei confronti, tu mi devi trasparenza. Che s’indignano quando vedono arrivare Chris Rock al cinquantesimo compleanno di Leonardo DiCaprio perché su MovieDataBase non ci sono crediti congiunti dei due, non hanno mai lavorato insieme, non mi risulta si conoscano, cosa fa al suo compleanno, non gli ha neanche mai messo like.
L’altroieri Madonna ha instagrammato una foto di lei, stesa su una scrivania, con la scritta «È domenica ma la stupidità non si riposa». Ho pensato «sorella», poi ho temuto di stare diventando Gianluca. Mi sono ricordata di quando nell’87 cantò a Torino, il Tg1 organizzò un collegamento coi suoi parenti a Pacentro, c’era un cuginetto abruzzese di ventesimo grado che avrà avuto otto anni, e lei a ottocento chilometri di distanza gli chiese: «You wanna dance with me?». Oggi il cugino passerebbe i successivi vent’anni a parlare del suo rapporto con la Ciccone, che non aveva mai visto prima e non avrebbe più rivisto dopo. Allora era più sano di mente della popolazione di questo secolo, e rispose: «Nun saccio balla’».