Quel mattocchio brillante di Omar Sívori è stato un pioniere del Sessantotto, in ribellione perenne contro l’autorità e la routine. Zlatan Ibrahimovic non è mai stato e mai sarà un chierichetto, con un ego invasivo e abrasivo. Diego Armando Maradona, be’, lui quando giocava se ne infischiava pure delle leggi della fisica. Il genio calcistico è poliedrico, multiforme, può avere ogni volto e ogni aspetto. È come un fulmine che può cadere in qualsiasi punto, in ogni momento. Difficile da prevedere. E forse ha qualche preferenza per l’Argentina, e per i pibe con il sinistro vellutato.
Ogni epoca calcistica è segnata dal passaggio di campioni coevi, le cui traiettorie si incrociano, si sovrappongono, coesistono per un po’ e poi si salutano lasciando agli spettatori l’immagine di gesti impossibili da riprodurre. Almeno non con quella velocità, quella precisione, quella bellezza. Certe giocate, da sole, valgono un’intera partita e anche di più. Singoli movimenti sono diventati il marchio di fabbrica dei campioni.
In mezzo secolo di giornalismo, Roberto Beccantini ha visto, spesso da vicino e in qualche caso da vicinissimo, quelle giocate su migliaia di campi, interpretate da almeno quattro generazioni di fuoriclasse, da Omar Sívori a Leo Messi. Le ha raccolte in “Giocati da Dio” (edito da Hoepli), con un titolo che dà il cinque alto a Carmelo Bene (era un suo modo di dire). Beccantini scrive un inno all’estemporaneità del gioco, alla capacità artistica di strabiliare con un pallone tra i piedi. Un libro di calcio e sul calcio, ma non parla di tattica, non ripercorre l’evoluzione del gioco.
Beccantini ricama sui momenti, su quei lampi che producono emozioni istantanee eppure impareggiabili. Perché il calcio è dei giocatori, soprattutto di quelli che sfuggono al controllo della lavagnetta e dell’analisi, impossibili da incasellare. È la fantasia che permette di uscire dall’ordinario, bucare gli schemi, saltare dal mondo reale all’irrazionale e creare la magia. A un primo sguardo può sembrare un testo passatista o antimoderno – mai reazionario – perché non parla di business, di brand, di algoritmi e metriche che sono diventati parte integrante del dibattito calcistico quotidiano. Ma l’autore rifugge il romanticismo stucchevole, la favola del gruppo e della comunità-spogliatoio, la religione del collettivo.
La modernità di Beccantini sta nell’eterno ritorno all’individuo e al talento, centro di gravità permanente del libro. Un umanesimo senza tempo né geografia. È il calcio alla sua essenza, in forma elementale. Le parate di Dino Zoff, il tiro di Francesco Totti, l’assist di Luka Modric. Un’ode all’arte calcistica in tutte le sue forme, anche quelle meno pragmatiche come il colpo di tacco, un gesto contro natura e contro intuitivo. «È una bava di estetica, uno sbuffo di godimento». O il colpo di testa, che nella vita di tutti i giorni appartiene a chi fa le cose senza aver valutato razionalmente le conseguenze. E forse è lo stesso nel calcio, uno sport in cui la palla è a terra e si tocca con i piedi – gli inglesi l’hanno chiamato football per un motivo. Non a caso il leggendario allenatore del Nottingham Forest degli anni Settanta e Ottanta, Brian Clough, ripeteva sempre: «Se Dio avesse voluto farci giocare a calcio tra le nuvole, ci sarebbe stata molta più erba lassù».
In “Giocati da Dio” c’è un lavoro di archivio e di repertorio, ma anche di memoria. «Ricordare è anche dimenticare», scrive Beccantini nell’introduzione, ammettendo che di sicuro qualcuno o qualcosa, dei grandi del calcio, gli è sfuggito nella stesura del libro. È un modo per rimarcare il format: non ha la pretesa di essere un manuale o un’enciclopedia, non è un testo didattico. Somiglia più al taccuino di un giornalista che ha fatto questo mestiere nel passaggio da un secolo all’altro, dalla carta al web.
Tredici gesti per tredici ritratti, confezionati da Hoepli con foto in bianco e nero scontornate su sfondo giallo. E per ogni capitolo c’è un decalogo a doppia pagina con i migliori autori di quei gesti (va da sé che pochi hanno il lusso di comparire in più categorie: Pelé, Alessandro Del Piero, Cristiano Ronaldo e altri eletti tra i migliori interpreti del gioco). Per l’autore ripercorrere le giocate dei grandi maestri è anche un modo per sfogliare l’atlante emotivo del suo rapporto con il gioco. Il dribbling di Sívori lo ha portato al fidanzamento con la Juventus: «Che la Juve fosse degli Agnelli non me ne poteva fregar di meno. Per me, e per quelli della mia covata, era di Sívori».
Platini una volta costrinse Beccantini a mettergli un quattro in pagella, in trasferta a Como. Perché quel giorno Le Roi proprio non aveva voglia di giocare a calcio, e si vedeva. C’è anche una straordinaria cartolina dallo stadio San Paolo di Napoli, ora intitolato proprio al genio inimitabile di cui si racconta uno dei calci di punizione più iconici. È quel «pomeriggio buio e tempestoso» in cui Napoli-Juventus si stava trasformando in una bolgia e «ogni zolla sembrava Iwo Jima». Uno 0-0 granitico fino al minuto settantadue. Fino al calcio di punizione indiretto in area di rigore bianconera. Poi il dialogo sibilato sulla palla tra Eraldo Pecci e Maradona. L’arcobaleno che esce da quel piede sinistro. «Gli ottantamila aspettarono. La pausa fa parte del miracolo. Come per il sangue di San Gennaro. Una città sospesa. Poi, improvviso, un ruggito. Gol. Il sangue si era liquefatto».
In chiusura c’è un corollario sul lessico del calcio, sulla sua evoluzione. Perché la grammatica del gioco cambia, e con lei il vocabolario. Si va dalle invenzioni di Gianni Brera fino a Lele Adani; dal pressing di cui si dissertava già in “Bar sport” di Stefano Benni fino al neocalcistese fatto di quinti, braccetti e marcature preventive. Ci si deve abituare a tutto, anche a una lingua nuova, per quanto possa sembrare difficile. Anche se non piace. Tanto, cosa importa, i colpi di genio dei migliori giocatori del mondo parlano una lingua universale, comprensibile a tutti. A chiunque voglia apprezzarla. E non c’è niente di meglio.