Qual è la differenza di percezione tra sei ore e seicento anni? Me lo chiedo continuamente, quando faccio ciò che più si fa nelle conversazioni tra adulti (rievocare episodi passati): quando qualcun altro mi dice che la tal cosa è successa tot anni fa, mi sembrano, senza alcuna logica, o molti anni di più o molti di meno.
«Nella mia testa ho già scritto il pezzo per il giorno in cui verrà fuori che la pugile era un uomo, solo che quel giorno verrà tra anni e per allora non saprò dove ho salvato i tweet certi della propaganda russa dei Bottura del mondo»: l’ho scritto a un amico il 10 agosto, sono quindi tre mesi ch’egli mi ha risposto con lo spunto dell’articolo che scriverò oggi.
«Non credo che verrà tra anni, ma ce lo saremo scordato lo stesso: ti ricordi che qualche settimana fa hanno provato a seccare Trump, e che questo doveva dividere più o meno in due la storia del mondo? Io non tanto». Oddio, l’attentato a Trump. Ciro Cirillo sembra più recente.
(«Ciro Cirillo sembra più recente» è una battuta che mi sono rivenduta decine di volte, ma l’ho inizialmente arrubbata a Giovanni Benincasa, autore televisivo e uomo massimamente spiritoso, che la disse a commento delle Sardine. Ve le ricordate, le Sardine? Non era neppure cinque anni fa: sembrano cinquecento).
L’altro giorno parlavo con qualcuno delle elezioni americane, buttavamo giù una lista di fatti memorabili. Trump al McDonald’s. Trump vestito da netturbino. Trump accovacciato sotto il podio dopo che gli hanno sparato. Non ci veniva in mente un ricordo democratico senza sforzarci.
(Sforzandomi: Springsteen che a un comizio fa “Dancing in the dark” con un arrangiamento diverso e il pubblico non la riconosce; i commentatori social che poi stigmatizzano la scelta di canzone frivola, non essendosi mai accorti che quello era un disco – l’ennesimo – sulla classe operaia, e “Dancing in the dark” era una canzone sul turno di notte: d’altra parte non l’hanno capito di “Sabato” di Jovanotti, figuriamoci).
Quanto è passato, da Trump con la casacca arancione da spazzino che dice che l’ha tenuta al comizio perché gli hanno detto che sfinava, come noialtre alle medie ci legavamo il maglione in vita illudendoci che coprisse il culone? Forse giusto Giorgia Meloni è abile quanto Trump nel veicolare il personaggio «ho le vostre stesse debolezze, sono proprio come voi». Magari la Meloni ha imparato il meccanismo dalla madre, che scrive romanzi rosa, attività più utile per capire le dinamiche umane di quanto lo sia un dottorato in sociologia della devianza.
Quanto a Trump, è mia convinzione che, diversamente da noialtri stimabili intellettuali, abbia sempre sfogliato i rotocalchi, e abbia capito ben prima dei social che quelle due paginette settimanali di Us Weekly, quelle “Stars… They’re just like us”, quelle erano la via al cuore dell’elettorato. Sì, persino se vivevi in una torre dorata. Proprio dorata dorata, non in senso metaforico. (Niente annuncia l’arrivo, lontano ma ineluttabile, della fine della sinistra come quell’intervista del 1962 in cui Nilde Iotti dice alla Fallaci «Non abbiamo la televisione, questa no. Togliatti non la vuole assolutamente: così quando c’è un programma che ci interessa, per esempio “Tribuna politica”, ci tocca andare in casa del compagno autista»).
Sono passate due settimane, e sembrano almeno due anni, da Trump netturbino. Dall’autoscatto della Isoardi con Matteo Salvini biotto sono invece passati sei anni, lo so perché ieri la funzione più utile dell’intera internet – i ricordi di Facebook – mi ha detto che sei anni fa postavo Luca e Paolo che cantavano “Perdere l’amore” cambiando le parole in «Perdere l’amore quando si fa sera, hai cento camicie ma nessuno che le stira, cerchi di distrarti, chiudi un po’ di porti, spiani con la ruspa un campo rom per rilassarti». Sei anni. Sembrano seicento.
Da quando Massimo Ranieri vinse Sanremo con “Perdere l’amore” sono passati trentasei anni. Sembrano trentasei ore o trentasei minuti; al punto che, qualche settimana fa (ma sembra qualche secolo fa), su quell’anno e le vendite dei libri in quell’anno ci siamo accapigliati su ogni piattaforma.
«Ma penso a chi sta peggio e mi consolo, perché c’è chi ha fatto un bel casino: Rocco Casalino», cantavano sei anni fa quei due comici interpretando l’io narrante di Salvini, e io non ho la più pallida idea di cos’avesse fatto Rocco Casalino in quei giorni, non riesco ad avere alcun ricordo delle volte – neppure poche – in cui ci è parso valesse la pena parlare di Rocco Casalino. Ecco, a questo punto dovrei chiedere come mai Rocco Casalino non mi si sia depositato nell’amigdala e Massimo Ranieri sì, ma mi pare una domanda oziosa.
Sono passati quarantatré anni da quando un repubblicano ha nominato la prima donna alla Corte Suprema degli Stati Uniti; venticinque mesi da quando in Italia è diventata prima presidente del Consiglio donna (o «persona con utero», a seconda di quale sia la vostra religione) una romana di destra; tre giorni da quando Donald Trump ha annunciato che il suo capo dello staff (cioè: la persona più importante dopo il Presidente) sarà una donna, Susie Wiles, la prima donna in quel ruolo; otto giorni da quando una donna democratica ha perso le elezioni americane e io ho pensato che dovrei fare un pezzo su Tulsi Gabbard, e su come scommetto che le uniche possibilità di vincere, negli Stati Uniti, ce le abbia una passata dai democratici ai repubblicani, e già lo so che mi deciderò a scriverlo tra otto secoli, e già mi vedo tutte le autonominate attiviste con uso di Instagram spiegarmi che la destra finge solo di dare potere alle persone con utero, ma in realtà nomina ed elegge ancelle del patriarcato, non come le donne di sinistra che non arrivano da nessuna cazzo di parte mai ma vuoi mettere la purezza d’animo.
È passata qualche settimana da quando i democratici americani hanno avuto la bella pensata di dire alle elettrici, di farglielo dire da Julia Roberts e altre intellettuali di riferimento, che potevano votare Kamala Harris di nascosto dai mariti. Naturalmente voi, piccole sciocchine, non potete voler votare quel bruto: lo fate perché pensate che sennò vostro marito vi sgrida, ma eccoci qui a dirvi che nel segreto dell’urna Julia Roberts vi vede e vostro marito no.
«Tutti si sentono autorizzati a pensare che quella dice ciò che dice perché lo ha sentito dire da lui: non perché ciò che dice è il prodotto del suo pensiero. Succede in tutto il mondo, in tutti gli ambienti, quindi anche nel mio partito», diceva la Iotti alla Fallaci a proposito della perpetua sottovalutazione di una che sarà pure stata Nilde Iotti, ma era innanzitutto quella-che-sta-con-Togliatti. Era una cinquantina d’anni prima di Instagram, ma eravamo già abbastanza illuminate da pensare che il femminismo fosse questa roba qui: stai zitta tu, che la pensi diversamente da me solo perché il tuo uomo t’ha detto come pensarla. Era il 1962: sembra domani.