Il recinto sanzionatorio nel quale l’Europa cerca di paralizzare gli asset economici, finanziari e informativi della Russia di Vladimir Putin è materia complessa e mutevole, sia per le merci, per i beni dual use, per l’energia, sia per le Big Tech che si trovano a gestire una mole di informazioni e di notizie immesse nel circuito dei social network e delle piattaforme in modo continuo da entità sottoposte a sanzioni. Le infrastrutture della propaganda del Cremlino sono numerose e multiformi, coadiuvate da vere e proprie fabbriche dei bot, un lavoro che viene da lontano e che si avvale del supporto di un partner importante come la Cina, che condivide con il Cremlino una strategia per la saturazione del mercato informativo informale.
Ma se da un lato, gli istituti di credito europei meritoriamente dopo il pacchetto che estende le sanzioni alle azioni di disinformazione hanno avviato istruttorie nei confronti dei clienti che mettono in campo azioni di guerra ibrida, agendo con ritardo, le grandi imprese del digitale stanno fallendo.
Infatti come racconta il nuovo rapporto del network Counter Disinformation coordinato da Alliance4Europe e Science Feedback attraverso il Counter Disinformation Network, un gruppo di otto organizzazioni della società civile e ricercatori, tra cui la Fidu (Federazione Italiana per i Diritti Umani), ha documentato come le piattaforme Big Tech stiano fallendo nell’applicare le sanzioni europee contro attori di propaganda russi e bielorussi.
Ad esempio le emittenti russe sanzionate pubblicano liberamente i contenuti su Facebook, su Instagram aziende militari sanzionate promuovono addirittura i loro carri armati su Instagram e inoltre personalità sanzionate ricevono denaro da annunci pubblicitari su Telegram.
Oltre a questo c’è un altro problema che appare enorme secondo il rapporto e che invalida ogni tentativo di filtro: su tutte le piattaforme, a eccezione di TikTok, l’ottantatré per cento degli account di entità o individui sanzionati segnalati risultano ancora accessibili nell’Unione europea, Il quarantotto per cento degli amplificatori non ufficiali di contenuti sanzionati continua a pubblicare nell’Unione europea.
«Il problema non è solo la presenza di contenuti sanzionati sulle piattaforme digitali – dichiara Eleonora Mongelli della Fidu – ma la loro amplificazione da parte di account che agiscono come indipendenti. Gli account che abbiamo documentato, anche in Italia, esercitano un’influenza significativa, raccogliendo in totale milioni di follower, molti dei quali all’interno dell’Unione europea. Questo crea un terreno fertile per la disinformazione e offre alle entità e individui sanzionati una possibilità di continuare a diffondere contenuti manipolati e dannosi per la nostra società. È essenziale che le piattaforme affrontino con urgenza questo fenomeno, implementando strumenti adeguati per individuare e limitare sia i canali sanzionati sia gli amplificatori, garantendo così il rispetto delle leggi europee e la protezione dello spazio informativo».
Nel rapporto si legge che sono stati identificati trecentosettanta nuovi casi di contenuti o account sanzionati non segnalati in precedenza e le centrali operative della disinformazione hanno inoltre elaborato nuove strategie per eludere le sanzioni tanto che alcuni account già inseriti nella black list traggono benefici economici dai programmi di monetizzazione di piattaforme come Telegram, YouTube e Facebook.
I dati del rapporto sollevano interrogativi sul rispetto degli obblighi previsti dal Digital Services Act (Dsa) e sul possibile impatto che la violazione delle regolamentazioni europee avranno sulle sanzioni.
Secondo Omri Preiss, managing director of Alliance4Europe, «le Big Tech hanno il chiaro dovere di salvaguardare le loro piattaforme dalla manipolazione delle informazioni da parte di governi autoritari. Ogni giorno vediamo quanto questo sia cruciale per la sicurezza del processo democratico in tutta l’Unione europea. La Commissione europea deve stabilire chiare linee guida per le piattaforme per attuare con successo il Digital Services Act».
Dopo i casi di Moldova, Georgia e Romania appare essenziale arginare i fenomeni di propaganda e disinformazione cognitiva non solo immediatamente prima i processi elettorali ma nel corso delle vita pubblica, una sfida per i legislatori e i creatori di contenuti.
Secondo Éric Percheron, associate research fellow al French Institute for International and Strategic Affairs, «questo rapporto evidenzia le sfide dell’applicazione delle sanzioni internazionali nel regno dell’informazione o della disinformazione. Gli autori illuminano un aspetto chiave della guerra ibrida: l’accesso illimitato ai contenuti di propaganda facilitato da piattaforme e vpn. La manipolazione delle informazioni attraverso TikTok e la recente cancellazione delle elezioni presidenziali in Romania ricordano il potere delle voci dell’era digitale».
Punti non marginali che faticano a rivestire il carattere emergenziale nel dibattito pubblico europeo. È di questi giorni la notizia riportata da Le Monde per cui i servizi di intelligence francesi avrebbero scoperto un’operazione di manipolazione sui social network lanciata dal Cremlino nella primavera del 2022 – dopo l’invasione russa in Ucraina. Secondo una fonte dei servizi di intelligence francese, infatti, il regime russo avrebbe contattato circa duemila personaggi di diversi Paesi europei, e venti di loro (tra cui nove francesi), presenti sia su Instagram sia su TikTok che avrebbero accettato pagamenti in cambio di spot a favore della Russia.
Su questo argomento ieri, il senatore di Italia Viva, Enrico Borghi, membro del Copasir, ha presentato un’interrogazione per chiedere al ministro «affinché vi siano controlli volti a verificare se qualche influencer italiano sia stato contattato dai servizi russi per diffondere ideali e valori contrari alla democrazia e ai valori europei».
La sovrapposizione tra mondi digitali e mondi reali è ormai un dato assodato e forse l’intensità della guerra ibrida racconta di come il terreno di scontro non sia solo virtuale.