Gli ultimi giorni dell’anno sono anche i giorni in cui si decretano le parole dell’anno. A ognuno la sua. Si va da quelle proposte in Italia come un impegno per il futuro (“rispetto”, indicato dalla Treccani quale esortazione a riscoprirne il valore nella pratica quotidiana; “avventura”, voluta dal rettore della Iulm Gianni Canova in ragione dell’etimologia latina che implica uno sguardo rivolto a “ciò che verrà”) a quelle, provenienti dall’area anglofona, di bilancio lessicale dell’anno che volge al termine: come polarization (scelta dal dizionario americano Merriam-Webster, in quanto incessantemente usata durante la campagna per le presidenziali Usa), o manifest (preferita dal Cambridge Dictionary, nella rinnovata accezione di “immaginare di realizzare qualcosa che si desidera, nella convinzione che così si aumenteranno le probabilità che accada”) o brain rot (“marciume cerebrale”: due parole, elette dal prestigioso Oxford English Dictionary, che si possono anche scrivere unite, a significare la sensazione provata dopo aver perso tempo a fare scrolling sui social senza uno scopo preciso).
Dictionary.com opta invece per l’aggettivo demure (riferito a una persona “caratterizzata da timidezza e modestia, riservata”), a cui, con il conforto del britannico Collins Dictionary, si può opporre brat (“caratterizzato da un atteggiamento sicuro di sé, indipendente e edonistico”), mentre dall’Australia il Macquarie Dictionary rilancia enshittification (trasparente neologismo costruito su shit, merda: ossia il “graduale deterioramento di un servizio o di un prodotto causato da una riduzione della qualità di chi lo fornisce”.
Anche la nostra parola dell’anno, come quella dell’Oxford Dictionary, sono due parole, ma, a differenza di quelle, non formano un unico concetto; formano, o meglio indicano, un unico (brutto) problema, un travisamento cognitivo: quello che confonde i fantasmi con la realtà, e puntando il dito contro i fantasmi fallisce l’intento, che pure ci sarebbe, e sarebbe lodevole, di modificare la realtà. Le due parole, tanto agitate quanto inconcludenti, sono “patriarcato” e “genocidio” (con le rispettive famiglie di derivati), e già ce ne siamo occupati in questa rubrica che si ripropone oggi in edizione speciale di fine anno.
Non che siano irreali, beninteso, i fatti a esse sottostanti, che significativamente continuano a perpetrarsi nonostante le due parole si moltiplichino dalle piazze e dai muri di vie e piazze ai giornali e ai dibattiti televisivi. Certo esiste in varie forme, e persiste anche nelle evolute società occidentali, un problema di discriminazione della donna, a volte di sopraffazione che troppo spesso sfocia nel femminicidio: novantatré solo in Italia nell’anno in corso, secondo i dati dell’“Osservatorio nazionale Femminicidi Lesbicidi Trans*cidi”, aggiornati all’8 di ogni mese e nel frattempo già superati. Così come persiste a Gaza, oltre all’eliminazione dei responsabili del 7 ottobre 2023, il massacro in nessun modo giustificabile di civili innocenti: oltre quarantamila, a dar retta alle fonti palestinesi.
Ma, a rigor di vocabolario, e di confronto tra significante e significato (e referente extralinguistico), è appropriato parlare di patriarcato e di genocidio? Il “rispetto” additato dalla Treccani quale auspicio per il 2025 non dovrebbe riguardare anche l’uso delle parole?
“Patriarcato”, in senso proprio, è (citiamo dal Dizionario Garzanti della lingua italiana) il «sistema sociale nel quale l’autorità e la proprietà familiare sono accentrate nelle mani dell’individuo più anziano di sesso maschile»: il patriarca, appunto, che non è un bieco tiranno ma colui al quale incombe la funzione di curare, proteggere e provvedere al sostentamento dei membri della comunità a lui soggetti. Un sistema organizzativo difficilmente riscontrabile nell’Italia del ventunesimo secolo, se non in residue realtà marginali scarsamente significative, ma soprattutto un modello che, per quanto non più corrispondente alla sensibilità d’oggi, non implica di per sé una connotazione negativa.
Naturalmente il significato di una parola può evolversi e anche ribaltarsi nel tempo, non è questo il problema; il problema è che radunando una molteplicità di fatti e situazioni reali sotto il cappello ideologico-militante del patriarcato si sostituisce l’attenzione verso questi singoli fatti e situazioni (discriminazioni, pregiudizi maschilisti, violenza di genere e violenza in generale), che necessiterebbero di approcci dedicati, dirottandola verso il fantasma di un sistema di fatto inesistente e di conseguenza neppure contrastabile.
A una analoga ideologizzazione di tipo ancora più marcatamente militante è andata incontro l’altra parola divenuta merce comune, tanto da contagiare anche ambienti meno militanti e venire ripresa persino dal Papa: il “genocidio” ormai non ha neppure più bisogno di essere accompagnato da un complemento di specificazione o da un aggettivo di relazione, perché il genocidio per antonomasia è ormai per (quasi) tutti quello dei palestinesi nella Striscia di Gaza. Non basta denunciare la strage, la mattanza, la carneficina, l’orrore quotidiano (reazione indubbiamente sproporzionata a un altro orrore, al quale tanti non danno peso): bisogna gridare al genocidio.
Senonché la strage, la mattanza eccetera sono fatti, documentati e innegabili; il genocidio è un’interpretazione. Presuppone (cfr. l’articolo 2 della UN Genocide Convention) che vi sia l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un determinato gruppo etnico, razziale o religioso. E vedere nel disastro umanitario di Gaza questa intenzione, anziché gli effetti scellerati di una operazione militare condotta con lo scopo dichiarato di debellare la rete terroristica di Hamas ma contestualmente, o soprattutto, con quello non dichiarato di garantire la sopravvivenza politica del governo Netanyahu, è appunto una interpretazione, viziata da tutta una serie di pregiudizi e compiaciuta di addebitare al popolo ebraico quella stessa infamia di cui in passato è stato vittima.
Un’interpretazione ideologica che, come tutte le ideologie, si nutre di certezze apodittiche e nei suoi sostenitori più estremisti rifiuta forsennatamente i distinguo, arrivando a tacciare di complicità con il genocidio (oltreché di nazismo e nazi-sionismo) chiunque, pur riconoscendo l’atroce realtà dei fatti, obietti all’uso di questo termine: per cui sono genocidi gli aderenti al gruppo d’opinione Sinistra per Israele, che denunciano la politica di Netanyahu e invocano una soluzione pacifica rispettosa dei diritti di tutti, e genocida è il suo presidente Emanuele Fiano. E la zuffa parolaia intorno al genocidio ha finito col fagocitare anche il confronto interno del gruppone Whatsapp “Bella chat”, lanciato lo scorso 25 aprile da Massimo Giannini come un’agorà dell’opposizione antimeloniana, causando l’abbandono del suo ideatore.
Ma tant’è: alimentare le polemiche intorno alle parole anziché unire le forze di fronte alla realtà è un antico vizio autogratificante che soprattutto a sinistra non si smette di coltivare. Peccato che, mentre dalle nostre parti, tra un pandoro e un panettone, ci si accapiglia sul genocidio, a poco più di duemila chilometri in linea d’aria il massacro continui.