Al civico 725 della Fifth Avenue di New York c’è un grattacielo di cinquantotto piani per un’altezza di duecentodue metri. Fino alla fine degli anni Settanta, a quello stesso indirizzo si trovava il grande magazzino di lusso Bonwit Teller, demolito nel 1980 in favore della costruzione attuale, la Trump Tower. Quando venne completata era la costruzione più alta in quell’area urbana e i suoi interni sfarzosi ed eccentrici divennero presto un’attrazione turistica: cascate, ponti sospesi, marmi pregiati ne decorano l’atrio che si sviluppa su un’altezza di cinque piani. A prendere posto nell’edificio sono negozi, caffetterie, uffici e appartamenti, tra cui, naturalmente, quello del proprietario, Donald Trump, che ha qui la sua lussuosissima dimora: ori, colonne in marmo, capitelli corinzi, soffitti affrescati e arredi ispirati allo stile Luigi XIV.
Di Trump Towers il presidente ha punteggiato l’America, ma la prima fa scuola: un modernissimo edificio a rappresentare il proprio impero finanziario, nel cuore di Manhattan, per lasciare, anche lui, la sua impronta nello skyline: cosa c’è di più americano di un grattacielo? In effetti, la forma grattacielo nasce proprio negli Stati Uniti, quando alla fine dell’Ottocento la produzione di acciaio economico permette di progettare edifici che superino le altezze imposte dalle tecniche costruttive precedenti, e se l’architetto Louis Sullivan della scuola di Chicago è considerato il padre dei grattacieli, vanta anche l’epiteto di padre del modernismo. Beh, sarebbe difficile fare un grattacielo in stile neoclassico, con capitelli, timpani e imponenti colonnati.
Eppure, il presidente Trump aveva già dato il via alla propria battaglia per un’estetica neoclassica degli Stati Uniti nel 2020, denigrando il modernismo, mostrando una repulsione per il brutalismo e una totale avversione per l’architettura contemporanea. E ora rilancia con una visione decisamente rétro, ma che dovrebbe, secondo lui, rappresentare lo stile a stelle e strisce, almeno negli edifici istituzionali. Di più, l’idea di un ritorno al neoclassico sarebbe strettamente connessa alla salvaguardia della bellezza, definita, per deduzione, nei termini di uno stile che negli USA ha preso caratteristiche peculiari, soprattutto negli stati del Sud.
«È l’immaginario di “Via col vento”, di quelle cittadine bianche, come Albany, la città natale dello scrittore William Faulkner: tutte espressioni di uno stile neoclassico –spiega Manuel Orazi, dottore di ricerca in storia dell’architettura e della città all’Università della Svizzera italiana –, di edifici realizzati in legno (e ora ci sono i pezzi di ricambio fatti in plastica o metallo!) per una visione fiabesca, a suo modo, della filosofia WASP (White Anglo-Saxon Protestant)». L’American Institute for Architects (AIA) naturalmente ha già espresso le proprie preoccupazioni, che riguardano sicuramente l’impatto che queste decisioni avrebbero sulle comunità locali nella fruizione degli edifici federali, ma anche la libertà espressiva: «L’AIA teme fortemente che l’imposizione di stili architettonici soffochi l’innovazione e danneggi le comunità locali», ha dichiarato.
Si può pensare a uno stile di stato? «È un dibattito Ottocentesco, quando ogni Paese cercava un proprio linguaggio nazionale. Oggi significa tornare indietro. Lo stile neoclassico ha avuto diverse fortune nel mondo: dall’Unione Sovietica agli Stati Uniti, passando per l’Inghilterra. Ma viene in ogni caso dall’Europa, anzi dall’Italia, con Palladio. Allora perché dovrebbe rappresentare un’America che parla di autonomia nazionale?», si chiede Orazi. La questione naturalmente è il potere: si impone un gusto, uno stile, un linguaggio. «Carlo Scarpa aveva dichiarato che il suo sogno era di incontrare un nuovo faraone per poter costruire la sua piramide. E lo ha detto mentre era impegnato nel dibattito per una ricostruzione democratica del Paese dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale: l’architettura ha un vincolo inscindibile con il potere perché esiste nel momento in cui viene costruita (altrimenti resta progetto) e i mezzi per farlo sono il denaro e, appunto, il potere», spiega Roberto Dulio, professore di storia dell’architettura al Politecnico di Milano.
«Nel 1950 Bruno Zevi pubblica la prima storia dell’architettura moderna da cui emerge che in Italia il fascismo aveva ampiamente flirtato con l’avanguardia. La dicotomia tra classicismo e modernità non stava in piedi e Zevi legittima Frank Lloyd Wright, che non apparteneva a nessuna corrente e lo stesso fa con Giuseppe Terragni. All’esponente del razionalismo italiano dedicherà particolare attenzione intorno al 1962 con una proposta interessante: Terragni sarebbe stato fascista, ma la sua architettura antifascista. Una forzatura, che esprimeva bene l’idea che se il classicismo rappresentava la cultura di destra, le proposte di Terragni erano assolutamente all’avanguardia. In Italia il classicismo non trova mai un’espressione così chiara, basta pensare all’EUR. Costruito nel 1942 per l’Esposizione Universale di Roma, sotto la regia di Marcello Piacentini, quell’edificio richiama la classicità ma non fa a meno della modernità». A propendere per il classicismo ci sono anche ragioni pratiche: l’avanguardia è sperimentale sia nelle tecniche costruttive sia nella scelta dei materiali, due elementi, come spiega Dulio, che ne mettono in crisi la fattibilità e il concetto di durata.
Ci sono poi i simboli. Se parliamo di edifici federali, parliamo anche di tribunali e carceri, per esempio: strutture che rappresentano l’istituzione e la collettività, e forse anche il potere. «Un tribunale deve rappresentare il concetto di autorità superiore e incutere anche un certo timore nella cittadinanza ed ecco perché sono quasi tutti – ce ne sono anche di innovativi, ma sono rari – ispirati al disegno di Piacentini per il Palazzo di Giustizia a Milano. Negli anni Novanta poi ci fu un convegno all’Accademia S. Luca sul classicismo in cui si parlava di emanciparlo. Bruno Zevi si presentò con una carriola di letame dicendo: «se si parla di merda…».
Certo, i simboli. Ma di sicuro non si può imbrigliare la creatività. Lasciando la parola ancora al professor Dulio, non è possibile normare l’espressione artistica, né parlare di architettura “giusta” o “sbagliata”. E se quella espressa dal presidente degli Stati Uniti d’America sembra essere in realtà un’avversione per tutto ciò che è contemporaneo – come ha fatto Re Carlo d’Inghilterra con la creazione di Pounbbury, un piccolo villaggio disegnato dall’architetto Léon Krier in stile vernacolare –, le sue torri sono espressione chiara della modernità: «Il presidente potrà arredare il suo salotto newyorchese all’ultimo piano come un appartamento rococò di Versailles, costruire i suoi golf club in stile coloniale spagnolo in California, déco in Florida, neopalladiano in North Carolina, ma il cuore del suo impero finanziario resta un insieme di modernissimi grattacieli», conclude Orazi. A questo si aggiunge il fatto che Trump abbia anche deciso di ritirarsi dall’accordo sul clima di Parigi. Le battaglie ambientaliste non trovano spazio nella Grande America Neoclassica… ma questa è (forse) un’altra storia.