Dalla newsletter settimanale di Greenkiesta (ci si iscrive qui) – «Non sarò un dittatore, fatta eccezione per il primo giorno». Detto, fatto. Dopo la cerimonia di insediamento di lunedì 20 gennaio, Donald Trump, il primo presidente pregiudicato nella storia degli Stati Uniti, ha firmato un numero senza precedenti – circa cinquanta – di ordini esecutivi, toccando anche le questioni climatiche, energetiche e ambientali. Gli ordini esecutivi sono decreti presidenziali che entrano immediatamente in vigore e non richiedono lunghi iter legislativi e dibattiti parlamentari, ma sono soggetti a ricorsi legali: una premessa necessaria per specificare che, come spesso accade, nulla è scolpito nella pietra.
Meno di mezz’ora dopo il giuramento, la Casa Bianca ha inviato un comunicato stampa che annunciava l’ormai scontata uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima. Trump ha definito il trattato «una truffa», sottolineando che il suo ordine esecutivo permetterà agli Stati uniti di risparmiare mille miliardi di dollari: una cifra priva di fondamento. Il Ceo di SpaceX e Tesla Elon Musk, a capo del dipartimento per l’Efficienza governativa e spesso definito «presidente ombra», nel 2017 commentava così il primo ritiro dall’accordo di Parigi per volere del leader repubblicano: «Il cambiamento climatico è reale. Lasciare (gli accordi di, ndr) Parigi non fa bene né all’America, né al mondo». Un post, che ai tempi si chiamava tweet, invecchiato malissimo.
Trump ha detto che il provvedimento sarà immediato, ma il ritiro risulterà effettivo a un anno dal deposito della notifica formale presso il board competente delle Nazioni unite. Nel frattempo, gli Stati Uniti – che non sono usciti dalla Convenzione quadro delle Nazioni unite sul clima (Unfccc), organizzatrice delle Conferenze delle parti (Cop) – possono ancora partecipare alle negoziazioni per contrastare il cambiamento climatico: potremmo avere gli Stati Uniti alla Cop30 in Brasile. Nel momento in cui il ritiro dall’accordo sarà ufficiale, gli Usa avrebbero comunque la possibilità di partecipare (e votare) alle riunioni dell’Unfccc, fatta eccezione per quelle espressamente dedicate al trattato di Parigi.
Durante il suo primo mandato, Trump ha annunciato il ritiro dall’accordo nel giugno 2017, per poi notificarlo alle Nazioni unite il 4 novembre 2019: l’uscita effettiva degli Usa è avvenuta il 4 novembre 2020, un giorno prima delle elezioni presidenziali vinte da Joe Biden, che ha immediatamente riportato gli Usa all’interno del trattato che punta a mantenere la temperatura media globale entro la soglia dei +1,5° (massimo +2,0°C) rispetto ai livelli pre-industriali. È più facile e veloce (trenta giorni per l’ufficialità) rientrare nell’accordo, piuttosto che uscire.
La paura è giustificata, perché la diplomazia climatica ha un disperato bisogno di un’America grintosa e allineata alla scienza. Gli Usa sono una superpotenza industriale in grado di orientare le politiche e gli stati d’animo dell’intero mondo occidentale, e non solo. Trump è un negazionista, la sua campagna elettorale è stata finanziata dall’oil&gas e la sua vittoria ha dato un’iniezione di fiducia all’industria fossile, ma il ritiro dall’accordo di Parigi richiede tempo e non è definitivo.
Si tratta di una decisione grave e pervasiva, ma anche fortemente simbolica, che punta a lanciare un messaggio: dimenticate l’ambizione climatica di Joe Biden, dimenticate l’Inflation reduction act (Ira) da trecentosessantanove miliardi di dollari, dimenticate tutta l’importanza – anche comunicativa – data finora ai temi ambientali; a noi, Stati Uniti d’America, non interessa partecipare alla sfida globale per eccellenza. La Terra non ha bisogno di una batosta del genere proprio adesso, in una fase così decisiva per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica. Ma invertire totalmente la rotta in soli quattro anni è utopico. Come scrive Rudi Bressa, giornalista ambientale, «il mondo non si distrugge» in così poco tempo.
Gli Usa, come anticipato, non usciranno dalla Unfccc, ma in un ordine esecutivo si parla di «cessazione immediata o revoca di qualsiasi presunto impegno finanziario assunto dagli Stati Uniti ai sensi della Convenzione». Durante il suo primo mandato, Trump ha continuato a finanziare l’Unfccc e a comunicare i dati nazionali sulle emissioni, ma l’aggressività e la fretta mostrate in questi giorni sono il presagio di un’inversione di rotta rispetto all’esperienza precedente. Gli Stati Uniti, ricordiamo, contribuiscono a circa un quinto del bilancio dell’Unfccc.
Ora voltiamo pagina, perché tra gli ordini esecutivi firmati da Trump c’è anche la dichiarazione dell’emergenza energetica nazionale, che darà all’amministrazione più poteri per approvare non solo nuove esplorazioni di petrolio e gas (in particolare in Alaska), ma anche di materie prime critiche necessarie per le tecnologie della transizione energetica. Trump sa che non può permettersi di non giocare la partita della rivoluzione industriale verde, e il suo obiettivo è quello di ridimensionare il dominio della Cina, che ha il monopolio non solo delle terre rare ma anche dei processi successivi di lavorazione.
L’emergenza energetica nazionale è scattata anche per affrontare l’aumento della domanda di elettricità dovuto all’intelligenza artificiale. Trump ha già annunciato il progetto Stargate, un piano di investimenti – non particolarmente gradito da Elon Musk – da cinquecento miliardi di dollari nel settore privato per costruire infrastrutture IA all’avanguardia: significa più emissioni di gas climalteranti, più consumo di suolo e minor capacità di reagire agli eventi meteorologici estremi. Entro il 2030, stima uno studio pubblicato sulla rivista Environmental Science and Ecotechnology, l’otto per cento dell’elettricità statunitense sarà destinato ai data center dell’IA.
«Potrete acquistare l’auto che preferite. Torneremo a costruire automobili in America a un ritmo che nessuno avrebbe potuto immaginare fino a pochi anni fa e ringrazio i lavoratori dell’auto della nostra Nazione per il loro voto di fiducia», ha detto Trump dopo aver annunciato una generica revoca del «mandato» per i veicoli elettrici. A preoccupare maggiormente è il congelamento del programma di leasing federale per i progetti di energia eolica offshore (in mare). E non solo: Trump, secondo cui le turbine fanno venire il cancro e disorientano le balene, avvierà una revisione della normativa federale sulle autorizzazioni per tutti i parchi eolici, che oggi valgono circa il dieci per cento dell’elettricità statunitense.
Un’altra decisione scontata ma allarmante è stata la revoca del blocco sulle esportazioni di gas naturale liquefatto (Gnl), consentendo così ai mercati internazionali un miglior accesso al combustibile fossile statunitense. L’Unione europea, per proteggersi dai dazi di Trump, potrebbe acquistare gas dagli Usa «su larga scala» (parole usate dal presidente in un post pubblicato a dicembre su Truth). Una nuova analisi di Zero Carbon Analytics, però, dimostra che l’Ue non ha davvero bisogno del Gnl americano perché la sua domanda è destinata a diminuire del ventinove per cento – rispetto ai livelli del 2024 – entro il 2030 e del sessantasette per cento entro il 2040: «Qualsiasi contratto stipulato ora che vada oltre il 2035 esacerberebbe la sovrabbondanza di fornitura di gas prevista dall’Ue», si legge.
Le prospettive non sono affatto rosee, ma è ancora presto per fare previsioni certe sul nuovo ruolo degli Usa nello scacchiere climatico globale. La transizione verde non si spegne o accende con un interruttore. È paradossalmente una buona notizia, perché Trump non potrà smantellare i parchi eolici o solari già funzionanti o approvati. Inoltre, esistono tanti singoli Stati Usa che non hanno intenzione di fare passi indietro, anzi. Nel 2022, le energie rinnovabili producevano il 22,7 per cento dell’energia statunitense con un tasso di crescita annuale del 12,6 per cento; nel 2023, secondo Wood Mackenzie, la capacità di generazione elettrica del solare fotovoltaico statunitense è aumentata del cinquantuno per cento rispetto al 2022 e del trentasette per cento rispetto al 2021. Il Texas, una delle roccaforti repubblicane, nel 2024 ha installato più pannelli fotovoltaici (in rapporto alla popolazione) di qualunque Stato americano.
Un messaggio di speranza è arrivato dalla United States Climate Alliance, una coalizione bipartisan composta da ventiquattro governatrici e governatori statali che rappresentano il cinquantaquattro per cento della popolazione statunitense e il cinquantasette per cento dell’economia nazionale: «È fondamentale che la comunità internazionale sappia che l’azione per il clima continuerà negli Stati Uniti. Abbiamo già affrontato una sfida del genere nel 2017. I nostri Stati e territori continuano ad avere un’ampia autorità ai sensi della Costituzione per proteggere i progressi fatti e promuovere le soluzioni climatiche necessarie. Non basterà un cambiamento nell’amministrazione federale», si legge in una lettera indirizzata a Simon Stiell, segretario esecutivo dell’Unfccc, e firmata da Kathy Hochul e Michelle Lujan Grisham, rispettivamente governatrici degli Stati di New York e New Mexico.