Joe, l’Ucraina e noiQuesto articolo non si occupa del presidente antiamericano degli Stati Uniti

Perdonerete la scelta di non commentare il gioco di ruolo in costume nazionalista andato in scena ieri a Washington. Meglio celebrare Joe Biden, nonostante i suoi grandi errori, e prepararsi a un mondo senza l’America che conosciamo

AP/Lapresse

Questo articolo non commenta il velenoso discorso di insediamento di Donald Trump, il presidente antiamericano degli Stati Uniti che, davanti a una platea di nazionalisti da anni Trenta del secolo scorso, ha promesso vendetta contro gli avversari politici, considerati traditori della patria, assieme alla chiusura delle frontiere, a espulsioni di massa, a tasse contro le entità straniere, a ripercussioni contro gli alleati storici, a grottesche riscritture delle mappe geografiche, ad annessioni di territori altrui al modo del Cremlino, e ad altre richieste biogeografiche di Lebensraum, di spazio vitale americano nel mondo.

Questo articolo non è nemmeno un editoriale che si riduce a paragonare in modo forzato Trump con Hitler, semmai è una scarna sintesi del gioco di ruolo in costume nazionalista che ieri a mezzogiorno di Washington è andato in scena nella rotonda di Capitol Hill, riassaltata quattro anni dopo i moti del 6 gennaio 2021 non più da sciamani con copricapi a forma di corna di bufalo, ma da oligarchi reazionari che si credono padroni dell’universo e da imprenditori tecnologici senza spina dorsale che hanno violato la prima regola del libro “On Tyranny” di Timothy Snyder, quella del «non obbedire in anticipo». E perbacco se costoro si sono prostrati davanti al tiranno, lesto a sfruttare la «conformità preventiva» dei sudditi a loro volta prontissimi a obbedire, ad adattarsi e a conformarsi ai nuovi ordini ancora prima che gli sia stato esplicitamente richiesto. Da Bezos a Zuckerberg è la capitolazione delle nuove élite all’autoritarismo fanatico, la sottomissione automatica al potere, la fine della società aperta. È l’America di oggi, e di domani.

Questo articolo, quindi, è su Joe Biden, l’ultimo presidente americano degli Stati Uniti, tra i più grandi della storia recente, nonostante gli enormi errori del suo unico mandato, tre su tutti: non aver fatto arrestare il golpista in chief dopo l’assalto al Congresso, aver gestito in modo indegno lo sconcio ritiro dall’Afghanistan concordato dal suo predecessore con i talebani (the art of the deal, proprio), e non essere riuscito a costruire per tempo un’alternativa seria a Trump perché troppo impegnato a nascondere i segni della propria età avanzata.

Biden però ha salvato l’Ucraina, l’Europa e quindi anche noi. Tra gli analisti e gli esperti seri, cioè tra quelli che non vanno nei salotti tv italiani a cianciare di geopolitica, c’è un dibattito sulla reale efficacia delle politiche della Casa Bianca sull’Ucraina. Secondo alcuni di loro, a ragione, Biden pur facendo molto per l’Ucraina in realtà non ha fatto a sufficienza, perché la sua strategia non ha mai voluto mettere in conto di sconfiggere la Russia e di far vincere l’Ucraina, ma si è limitata a voler contenere l’aggressione del Cremlino, nell’illusione tragica di riuscire a costringere Vladimir Putin a più miti consigli.

Il dibattito è interessante, e lontano un miglio da quello alimentato dai babbei che chiacchierano di espansionismo Nato, di guerre per procura e di altre fregnacce. La realtà è che storicamente l’America non ha mai voluto sconfiggere Mosca, con l’eccezione del tempo in cui era guidata da quel Ronald Reagan che voleva battere «l’impero del male» e gettare il comunismo nell’umido della storia.

Al contrario, da quando è crollata l’Unione sovietica, Washington si è sempre preoccupata di non far crollare il regime russo, per paura che il vuoto potesse essere colmato da qualcosa di ancora peggiore. Biden è soltanto l’ultimo dei presidenti americani, non importa se liberal o conservatori, ad aver perseguito la medesima politica di containment sulla Russia, eseguita da policy maker di destra e di sinistra seguaci della medesima dottrina delineata durante la Guerra Fredda.

Ecco che cosa avevo scritto l’anno scorso nel libro “L’Ucraina siamo noi”, per ricordare questa lunga e costante politica americana sulla Russia: «Nel 1991, tre settimane prima della dichiarazione d’indipendenza ucraina dall’Unione Sovietica che avviò la smobilitazione finale dell’impero comunista, George Bush senior al Soviet supremo di Kyjiv fece un discorso realista, patetico e disonorevole, passato alla storia con il nome ingiurioso di “Chicken Kyjiv speech” che gli affibbiò William Safire sul New York Times. In quel discorso, l’allora presidente degli Stati Uniti disse che gli americani non avrebbero mai sostenuto coloro che cercavano l’indipendenza «per sostituire una dittatura lontana», quella di Mosca, «con un nazionalismo suicida centrato sull’odio etnico». In quell’occasione Bush si fece messaggero degli interessi del Cremlino e del leader sovietico Gorbačëv che brigava per non far crollare l’Unione sovietica sotto i tellurici movimenti di libertà dei suoi ex sudditi. Secondo gli ucraini di allora, il presidente americano si mostrò più filosovietico degli stessi leader comunisti ucraini. Insomma, gli americani di Bush senior, in nome della Realpolitik, nel 1991 cercarono di scongiurare la fine dell’impero sovietico e di frenare l’indipendentismo ucraino e da allora anche i successori di Bush senior non fanno altro che cercare di proteggere Mosca dalla deflagrazione, peraltro non riuscendoci, nemmeno dopo aver costretto gli ucraini a cedere alla Russia, in cambio dell’indipendenza, tutte le testate nucleari sovietiche dislocate in territorio ucraino. Altro che “guerra americana alla Russia”».

Da Bill Clinton che promosse l’accordo sulle armi nucleari e sulla sicurezza, a Bush figlio che aveva guardato negli occhi Putin e aveva visto la sua anima, fino a Barack Obama che, dopo aver preso in giro i suoi avversari John McCain e Mitt Romney perché avvertivano del pericolo attuale e urgente russo, ha unilateralmente cancellato («reset») le antiche incomprensioni di Mosca augurandosi una nuova era di rapporti diplomatici con Putin, mentre Putin si faceva beffe prima delle fantomatiche linee rosse sull’uso di armi non convenzionali in Siria e poi dei processi democratici occidentali senza che la Casa Bianca obamiana muovesse un dito.

Questo articolo continua a non voler parlare di Trump, ma non può fare a meno di riportare che dal 2016 al 2020 alla Casa Bianca c’è stata una marionetta del Cremlino. È vero, dunque, che Joe Biden ha impedito la vittoria completa di Kyjiv e la necessaria e umiliante sconfitta della Russia, per esempio non fornendo per tempo missili a lungo raggio e aerei da combattimento, e mettendo grandi limitazioni all’uso delle armi peraltro sempre consegnate in ritardo, ma rispetto ai suoi predecessori è stato comunque un gigante, perché se non avesse fatto quello che ha fatto per l’Ucraina i russi avrebbero portato i loro cavalli ad abbeverarsi nel fiume Dnipro che bagna Kyjiv, e invece non ci sono riusciti.

Biden ha salvato l’Ucraina e l’Europa: non ha fatto abbastanza da respingere del tutto gli invasori, ma gli va riconosciuto che senza il suo sostegno oggi non ci sarebbe più l’Ucraina, e non ci sarebbe più l’Occidente.

Biden non c’è più, e ieri è stato il giorno in cui è finita l’America che conosciamo. Ma questo articolo, come detto, non commenta chi ha ridotto l’America, la città illuminata sulla collina e il faro di libertà, in questo stato. O forse sì.

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