Il dato messo in rilievo dal sondaggio Demos pubblicato oggi su Repubblica (Ilvo Diamanti) secondo cui il 56% degli italiani, nell’approssimazione del titolista, “dice no a Schengen mentre solo un terzo ha fiducia nella UE” obbliga a portare la questione in cima all’agenda.
Per radio (Radiotre) questa mattina Fabio Bordignon, autore del sondaggio, mette qualche cautela: si tratta di un segmento di un più ampio rapporto sulla sicurezza che verrà presentato settimana prossima e che potrebbe contenere qualche elemento più chiarificante. Ma la sostanza è questa. E non pare che i sondaggisti siano lepenisti travestiti dediti a mettere benzina sul fuoco (il modo di porre le domande può avere spesso componenti ideologiche o di lucro mediatico).
Due pensieri affiorano.
Il primo è che viene in mente che i tedeschi ad una domanda analoga rispondono sì al ripristino dei controlli al 19%. Loro, tre volte tanto bersagliati dal fenomeno migratorio, sono tre volte meno presi dal furore di alzare i ponti levatoi.
Il secondo è che si mantiene l’equivoco di ritenere che Shengen regoli le “porte esterne” dalla UE, mentre invece regola le “porte interne”.
L’una e l’altra cosa mettono più che mai in evidenza la crisi della qualità del dibattito pubblico in Italia sulla portata mondiale e complessa del fenomeno migratorio, ancora preda di spettacolarizzazione emotiva e di uso superficiale e speculativo della politica. Dentro la crisi del “dibattito pubblico” c’è l’evanescenza ormai drammatica di una seria comunicazione pubblica, gestita in modo responsabile e primario da tutte le istituzioni implicate. Attorno ai veri dati statistici, alla spiegazione delle norme in essere, alla natura dei fenomeni all’origine scatenante, al quadro regolatorio comparato, al pensiero degli studiosi capaci di connettere fattori disciplinari diversi.
L’immenso gap tra il risultato demoscopico italiano e quello tedesco sta in larga parte attorno ad una qualità resistente del presidio comunicativo istituzionale che in Germania fa anche da leva a un approccio investigativo mediatico maggiormente responsabile. E sta anche nella vera e propria distruzione (bilanci, volontà politica, modelli organizzativi) di una seria e professionale gestione della comunicazione istituzionale nel nostro paese a vantaggio della sola esistenza degli uffici stampa, ormai a regime persino nei livelli amministrativi più piccoli perché funzionali troppo spesso non tanto a spiegare le cose ma a dare visibilità ai politici.
Non è certo la sola comunicazione a raddrizzare derive di opinione pubblica di un paese che dimostra consapevolezza e responsabilità intermittente (e quando l’intermittenza è negativa è un paese che ha sopportato o anche favorito cose inimmaginabili). Ma essa è rivelatrice di una salute sociale e civile delle istituzioni, che aiuta a tenere in alleanza vitale la stessa salute del controllo sociale e della qualità mediatica.
Il dato di oggi potrebbe anche essere confutato demoscopicamente (per esempio attorno al drammatico dato del 27% degli italiani che hanno consenso verso la UE, intendendo oltre due terzi di dissenso, potrebbero essere valorizzate altre evidenze demoscopiche che ribaltano il dato con i due terzi degli italiani che non vogliono che il paese si isoli nelle decisioni europee sulle materie di evidente responsabilità comune, eccetera). Ma questa, pur importante, è una battaglia collaterale. La prima è tornare a porre il ruolo di tutte le istituzioni socialmente in prima linea (dalla scuola alla salute, dalla sicurezza all’ambiente, dal lavoro alla giustizia, dalla statistica alla trasparenza amministrativa) a rimettere la questione dell’analisi delle fonti e del servizio ai cittadini come prioritaria rispetto alla crescita di propaganda, opacità, pressapochismo che si crede di occultare gonfiando la produzione di comunicati stampa.
Con due corollari: centrare su questo tema la imminente revisione della convenzione tra lo Stato e la Rai in materia di mission del servizio pubblico radiotv ; e aprire nello stesso sistema mediatico (gli Oscar a Spotlight possono pure servire a questo) una riflessione per immaginare un futuro di piena libertà di stampa per i media e di piena responsabilità comunicativa per le istituzioni e i servizi pubblici.