Altro che nuova letteratura, le serie tv sono già finite

Episodi dilatati per allungare il brodo, scritture sempre più deboli e scene risibili. Le serie tv si stanno suicidando, ed è ora di rendersene conto

Nel marzo 2011, in un’intervista rilasciata a Roma durante Libri Come e pubblicata dal Sole24ore, Jonathan Franzen dice una frase, tra altre. «Quando leggi Dickens ottieni gli stessi effetti narrativi che ti danno le serie televisive». Non importa che lo scrittore americano poi faccia dei distinguo e che esprima un concetto decisamente meno grossolano de “le serie tv sono la nuova letteratura”, ma tant’è. È l’inizio della fine.

Passano soltanto tre mesi. È il giugno dello stesso anno, e questa volta tocca a un altro grandissimo della Letteratura prender le parti delle serie tv. È l’indiano Salman Rushdie. Anche lui, come il vecchio Franzen, annuncia di aver iniziato a scrivere una serie tv. Il Guardian non si fa sfuggire l’occasione e titola: «Salman Rushdie says TV dramas comparable to novels». Alè.

Siamo a metà del 2011 e sembra che due dei più grandi scrittori più “letterari” della contemporaneità abbiano appena annunciato che la stagione del Romanzo è finita, e che sta iniziando quella delle serie tv. Tutto bene, tranne il fatto che non è vero.

Uno. Franzen, subito dopo quella frase ha aggiunto un’avversativa: «Ma senza quel gioco di cambi di prospettiva e di giochi verbali sull’interiorità che solo il romanzo moderno può generare». Due. Quattro giorni dopo l’uscita del pezzo del Guardian, in calce all’articolo appare un errata corrige: «Questo articolo è stato emendato il 16 giugno 2011 per correggere l’erronea attribuzione a Salman Rushdie del pensiero che le serie televisive abbiano superato i romanzi nel loro ruolo di miglior medium per comunicare idee e storie».

È novembre. Sempre 2011. Tocca ad Aldo Grasso, che a pochi giorni dall’intervista a Franzen già lancia la carica scrivendo su La Lettura un articolo che porta un titolo significativo: Accendi la Tv. Il romanzo è un telefilm americano, e che contribuisce a mettere in testa agli italiani il germe di un luogo comune che, nel giro di qualche mese, si ingigantisce, fino alla consacrazione del nulla, nell’agosto del 2013, quando infine leggiamo: «Le serie tv non sono soltanto più belle e avvincenti dei film, sono molto di più. Sono la forma d’arte emblematica di questo inizio di Ventunesimo secolo. Sono il prodotto di una rivoluzione creativa iniziata nel 1998 con i Soprano di David Chase sul canale americano a pagamento Hbo. Sono la Nuova Letteratura».

A cinque anni dalle dichiarazioni (peraltro equivocate) di Franzen e di Rushdie, ora possiamo dirlo: il formato serie tv sta morendo, e la malattia che lo sta uccidendo una malattia autoimmune.

A cinque anni dalle dichiarazioni (peraltro equivocate) di Franzen e di Rushdie, ora possiamo dirlo: il formato serie tv sta morendo, e la malattia che lo sta uccidendo una malattia autoimmune. I numeri parlano chiaro: le serie televisive si stanno uccidendo da sole. Negli ultimi anni si sono moltiplicate a dismisura, così come gli spettatori di tutto il mondo. E che c’è di male? Che l’aumento esponenziale ha generato sì alcune belle prove del formato, ma, soprattutto, ha moltiplicato la spazzatura. Nel frattempo Netflix è diventato un fenomeno mondiale e sempre più gente ci sta credendo davvero: le serie tv “sono la Nuova Letteratura”.

Ma sbagliano. Per un motivo, sopra gli altri: confondono il contenuto con il contenitore. Innamorati di alcune singole manifestazioni del formato — quelle poche “belle prove” di cui sopra — e malconvinti che l’aggettivo “letterario” e il sostantivo “letteratura” abbiano un valore positivo intrinseco, hanno sinnedocamente preso il tutto per la parte, santificando un formato che ha già il fiatone e che davanti a sé ha i passi contati.

Le serie tv non sono la nuova letteratura. E bastava leggere per intero l’intervista rilasciata da Franzen a Ricuperati, perché il buon Franzen, subito dopo l’improvvida citazione di Dickens, dicva anche che: «il modo in cui un romanzo moderno fa scivolare i punti di vista di una narrazione è assolutamente non-riproducibile in una serie. Ciò che accade con naturalezza in un solo paragrafo, in un romanzo, richiederebbe sforzi enormi in un racconto tv. Le serie hanno principalmente un mezzo per convogliare il mondo interiore dei personaggi: le espressioni facciali. Ed è così poco, se lo compariamo con la ricchezza di possibilità che esiste nella costruzione retorica romanzesca»

La “ricchezza di possibilità che esiste nella costruzione romanzesca” di cui parla Franzen non è l’unica carta che chiude il punto al romanzesco nell’ideale tavolo da poker in cui lo abbiamo messo davanti alla serialità televisiva. L’altra carta, molto più forte, è chi paga. “Follow the money” diceva Gola Profonda in Tutti gli uomini del Presidente. Segui i soldi e capirai chi è il mandante.

Il Follow the money, per le serie tv, porta alla pubblicità. È quello il motore immobile di serie che durano decine di puntate, e che se durano quelle decine di puntate è perché serve che durino così tanto. E anche le strutture interne delle serie tv, prese spesso in appalto dai romanzi, dai fumetti e dal cinema (le serie tv non hanno ancora inventato nulla), sono completamente imbevute di quei soldi. Che c’è di male? In realtà nulla. La naiveté dell’arte non commerciale ce la siamo scrollata di dosso da un pezzo, con buona pace di tutti. L’illecito non sono i soldi, è il movente. Che non è più l’emozione, ma l’attenzione.

Nel solo prime-time, ovvero dalle 20 alle 23, negli Stati Uniti sono andate in onda 1715 serie tv durante il solo 2015. Significa una cosa come 15840 minuti di trasmissione, 264 ore, «una settimana e mezzo», scrive Fallon, che poi aggiunge altri dati impressionanti. Si è passati da 26 serie prodotte da Tv via cavo americane nel 1999 a 199 nel 2014. Un aumento del 665 per cento

Nulla di male nel fare soldi anzi, è vero esattamente il contrario, non ci fa più così tanta tenerezza l’immagine dell’artista straccione. Grandi artisti hanno scritto per denaro, da Dickens a Jack London. Ma le dinamiche del mercato non sono le dinamiche dell’arte, perché, per esempio, l’arte non conosce l’economia di scala. Le serie tv sì, invece. E i loro produttori, avendo capito per primi che la massa novecentesca si è dissolta in decine di nicchie molto pesanti di pubblico specializzato, hanno scalato il formato invadendo il mercato. L’economia di scala sta uccidendo già l’economia, figuriamoci che effetto fa sull’arte.

Show, don’t tell. Ok, e allora mostriamo quanto è grosso sto elefante e quanto è piccolo il corridoio. Il critico americano Kevin Fallon, sul DailyBeast, mette insieme qualche numero. Nel solo prime-time, ovvero dalle 20 alle 23, negli Stati Uniti sono andate in onda 1715 serie tv durante il solo 2015. Significa una cosa come 15840 minuti di trasmissione, 264 ore, «una settimana e mezzo», scrive Fallon, che poi aggiunge altri dati impressionanti. Si è passati da 26 serie prodotte da Tv via cavo americane nel 1999 a 199 nel 2014. Un aumento del 665 per cento.

«C’è semplicemente troppa roba in TV», ha detto John Landgraf, CEO di FX, canale americano che ha prodotto serie come Sons of Anarchy, Louie, American Horror Story, Fargo e The Americans. «La mia sensazione», continua Landgraf, «è che nel 2016 e nel 2017 avremo il picco delle produzioni in America, poi seguirà il declino. C’è troppa competizione. È diventato difficile trovare buoni show… e credo che sia impossibile mantenere un controllo sulla qualità».

La stanchezza di un Landgraft è significativa. Perché Landgraft è quello investe, compra, promuove, ovvero è l’ultimo uomo al mondo che vorrebbe vedere svanire il fiume di attenzione generato dalla serialità televisiva. Eppure la sua stanchezza economica ha il suo specchio in un’altra stanchezza, quella stilistica che affligge batterie di sceneggiatori che, rimasticando all’infinito lo stesso bolo narrativo di cui vengono nutriti da anni, sono ormai più sterili di una mandria di muli.

In nessun altro modo, se non come scivoloni nelle pozzanghere del kitsch, si spiega una Samantha Jones, che in una famosa scena di Sex and the city ritroviamo agghindata di sushi a san Valentino in attesa del ritorno a casa del suo toy boy. Una scena che vuol muovere al riso e alla pietà, ma invece di ricordare Pirandello e il suo sentimento del contrario, è semplicemente sbagliata.

Alzi la mano chi non lancerebbe contro il muro un libro che avesse come coprotagonista un tizio di nome Jesse Uomorosa.

Non c’è niente da ridere, né di che avere pietà, né di che riflettere. C’è solo kitsch e sfiga. Esattamente come nell’amplesso che Claire Underwood regala al marito, un presidente degli Stati Uniti in lacrime. In lacrime? L’uomo più potente del mondo? Ma che scherziamo? Quella è gente che ruba pompini alle segretarie, mica scopate piangenti alla moglie.

Ma c’è anche peggio. Per esempio c’è la psichedelica rassegna di sballi e di mezze threesome di Danny Rayburn, protagonista di Bloodline, i cui autori, per raccontare la discesa all’inferno di un poveraccio, non sanno optare su altro che su un dado knorr per allungare il brodo e soddisfare la fame chimica del pubblico, ormai trasformato in armata di tossici indivanati, condannati alle piaghe da decubito, più che alla goduria estetica.

E che dire di un’intera stagione di Lost aggiunta dopo il finale, clamorosamente perfetto, dell’esplosione atomica nel pozzo, con il successivo tuffo in bianco e titoli di coda. Si sentiva il sapore del sangue e della violenza gratuita in quel momento, lo stesso sapore ferrigno e la stessa gratuità da face palm di un Edward Norton che annienta di pugni la faccia di un adepto di Fight Club soltanto perché “volevo distruggere qualcosa di bello”. È quello che tanno facendo i produttori, che dopo aver fatto del pubblico una platea di eroinomani, ora stanno vendendo loro roba tagliata male. E se a farsi eroina si muore, a farsi di talco si muore peggio. O ancora, alzi la mano chi non lancerebbe contro il muro un libro che avesse come coprotagonista un tizio di nome Jesse Uomorosa.

Sì. Le serie televisive sono tossiche, non morbose come tutta la grande letteratura moderna. Sono proprio tossiche. E nemmeno tossiche come i romanzi cavallereschi — che romanzi in realtà non erano — che fecero sognare a Miguel de Cervantes la storia della follia di Alonso Quijano tramutandolo in Don Chisciotte e dando così avvio alla storia del Romanzo.

E invece no, le serie televisive sono tossiche come una droga, perché proprio quella serialità artificiale è una droga. Una droga che sta mietendo una vittima perché la serialità sta uccidendo le serie tv stesse, che nella loro Golden Age hanno prodotto risultati molto interessanti, ma che si stanno perdendo nell’infinito inseguimento di se stesse, nell’infinito ed estenuante tentativo di soddisfare un bisogno che non si può soddisfare: perché l’unica dose che soddisfa il tossico è l’overdose.

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