Pamela De Rosa ha 38 anni, vive a Somma Lombardo e da meno di un anno ha scoperto di soffrire di artrite reumatoide, una malattia autoimmune e degenerativa che colpisce circa l’1% della popolazione, una persona ogni 250 abitanti. Si tratta di un morbo che colpisce soprattutto le articolazioni e, nei casi più gravi, anche gli organi interni. È come se il sistema immunitario attaccasse se stesso, causando forti dolori, gonfiore a mani e piedi, una sensazione di febbre e rigidità e una compromissione dei movimenti. Se non curata, la malattia può portare nel giro di pochi anni a danni irreversibili nell’uso delle mani e nella deambulazione.
«Io non mi sono accorta subito che qualcosa non andava. Avevo dolori osteoarticolari, problemi alle mani e alla schiena e facevo fatica a stare in piedi, ma ero convinta che fosse legato alla sedentarietà del mio lavoro, perché faccio l’impiegata», racconta De Rosa. «È stato il mio medico di base ad accorgersi che c’era un problema».
La malattia prevede una fase “attiva” e una passiva, in cui i sintomi non sono presenti. Può essere tenuta sotto controllo prendendo appositi medicinali immunomodulanti, che sopprimono una parte del sistema immunitario, sostanzialmente “ingannandolo” per impedirgli di aggredire altre cellule. Quando il farmaco funziona (quello che prende De Rosa si chiama Plaquenil), la persona può tornare a vivere una vita normale o quasi.
Plaquenil (il nome commerciale dell’idrossiclorochina) e Actemra (il nome commerciale del tocilizumab), sono tra i farmaci che stanno attualmente venendo sperimentati negli ospedali per trattare il Covid-19. «La clorochina e l’idrossiclorochina sono normalmente usati per la malaria. L’idrossiclorochina in particolare genera una riduzione della risposta immunitaria, quindi sta venendo usata anche per il Covid, perché si pensa che abbia un’attività antivirale. Potrebbe ridurre la possibilità per il virus di entrare nelle cellule, e con un meccanismo di modulazione della risposta immunitaria limitare i danni», spiega a Linkiesta Antonio Clavenna, esperto dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri.
«Il tocilizumab invece non inibisce il virus, ma serve per bloccare una risposta infiammatoria esagerata che può essere causa di danni ai polmoni, ai reni o al cuore. Per questo si è deciso di provarlo anche nei casi di Covid in forma grave, ossia negli intubati in insufficienza respiratoria. Sembra stia già venendo usato su un gran numero di pazienti, vedremo se darà i benefici sperati».
Insieme a Plaquenil e Actemra, alla lista dei farmaci attualmente in uso negli ospedali si aggiunge anche un antivirale usato per la terapia dell’HIV, il Dopinavir/Ritonavir, un farmaco che agisce su un enzima del virus e ne blocca la replicazione nelle cellule, e il Remdesivir, un antivirale già impiegato per Ebola, anche se senza grande successo. «Alcuni farmaci, come il Remdesivir, non sono già registrati in Italia», prosegue Clavenna.
Per alcuni farmaci, come il giapponese Avigan, pur non essendo ufficialmente riconosciuti in Italia, l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha stabilito di dare il via alla sperimentazione. «Pur non essendoci indicazioni di una comprovata efficacia, nei casi più gravi di Covid si ritiene che i potenziali benefici dati dalla somministrazione del farmaco possano superare gli effetti collaterali che questo comporta, posto che il rischio per questi pazienti è comunque molto alto», spiega l’esperto.
In generale, «non abbiamo al momento dei farmaci specifici di provata efficacia, per cui sono tutti sperimentali, non sappiamo ancora bene se funzioneranno o no», spiega Clavenna. Ancora si sta attendendo che gli studi, soprattutto provenienti dalla Cina, che ne ha conclusi diversi o è in fase di conclusione, vengano pubblicati sulle riviste scientifiche. Secondo l’esperto, potrebbe servire circa un mese e mezzo prima di capire quale terapia potrebbe funzionare davvero.
Intanto, però, l’utilizzo di questi farmaci, che normalmente non hanno una produzione massiccia, ha portato nelle scorse settimane ad una relativa scarsità sia all’interno degli ospedali che delle farmacie territoriali, con difficoltà di reperimento per chi deve assumerli regolarmente – tra cui le persone come De Rosa. C’è anche notizia di sequestri di partite di medicinali diretti all’estero nelle dogane, cosicché rimangano disponibili sul territorio nazionale.
«La scorsa settimana ho ricevuto decine di messaggi di persone in tutta Italia che non riuscivano a trovare il Plaquenil. Io ho passato quattro giorni al telefono con le farmacie, nessuno l’aveva. Con il fatto che non si può uscire dal proprio comune, poi, non avrei nemmeno potuto spostarmi per andarmelo a procurare altrove», racconta De Rosa. Alla fine è riuscita a procurarsi il farmaco, pagando per la consegna in farmacia. «Io non mi scandalizzo per 9 euro di consegna, ma comunque non è una cosa giusta, il servizio sanitario conosce il fabbisogno dei suoi malati e dovrebbe continuare a fornire le medicine come ha sempre fatto».
Luigi Sinigaglia, presidente della Società italiana di reumatologia (Sir) ha diffuso il 26 marzo un comunicato: «Stante la grande richiesta del farmaco Tocilizumab intravenoso per l’emergenza COVID 19, tengo a inviare a tutti un caldo invito ad adottare per i pazienti in trattamento presso i nostri centri la terapia per via sottocutanea, evitando in questo modo di interferire con gli approvvigionamenti del farmaco intravenoso che sarà precipuamente dedicato in questa fase all’emergenza epidemica». «Roche, interpellata personalmente questa mattina (giovedì scorso, ndr), ha assicurato che sta facendo ogni sforzo per non fare mancare il farmaco sottocutaneo ai presidi reumatologici in ordine alla garanzia della continuità terapeutica per i nostri pazienti. Relativamente alla carenza di Idrossiclorochina, Sanofi, interpellata da questa Presidenza, garantisce il massimo sforzo per cercare di ovviare agli attuali problemi», precisa la comunicazione.
Le case farmaceutiche stanno provando ad attivarsi per sopperire alle difficoltà di approvvigionamento, ma non sono ancora chiare le tempistiche con cui i farmaci potrebbero tornare ad essere disponibili in maniera regolare all’interno delle farmacie sul territorio. Per il momento, Sanofi ha attivato un numero verde così che le farmacie possano richiedere tramite il codice ricetta il numero di confezioni necessarie ad evadere le richieste, evitando scorte compulsive da parte di alcune farmacie a discapito di altre.
Nel frattempo, l’apertura dell’Aifa alla fine della scorsa settimana alla commercializzazione, a carico del Sistema sanitario nazionale (SSN) dei farmaci a base di clorochina e idrossiclorochina, così come per i farmaci anti-Aids lopinavir/Ritonavir, Danuravir/Cobicistat, Darunavir, Ritonavir, per i pazienti affetti da Covid in isolamento domiciliare (presto dovrebbero poter essere prescritti già dal medico di base) potrebbe potenzialmente aggravare la carenza di medicine, almeno nell’immediato.
Sulla questione si è espressa anche l’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica. «Chiediamo all’Agenzia Italiana del Farmaco che sia garantita sempre l’erogazione e la disponibilità, a carico del SSN, dei farmaci resi disponibili per COVID-19, per tutti quei pazienti che già li assumono, affinché la necessaria e urgente individuazione di una risposta efficace al coronavirus non generi situazioni non completamente ponderate e dunque potenzialmente dannose anziché benefiche», ha dichiarato Filomena Gallo, segretaria nazionale. «La necessità è che a tutti i livelli venga garantito il rispetto delle regole, per scongiurare il rischio che sul territorio farmaci necessari utili alla cura di altre patologie arrivino in misura ridotta, mettendo così a rischio il diritto alla salute di persone malate».
In un tale contesto, a maggior ragione per coadiuvare i malati cronici, che di queste medicine hanno bisogno quotidianamente, gli esperti raccomandano che di fondamentale importanza è evitare le soluzioni fai da te. «Con queste notizie che sembrano indicare un farmaco efficace, il tentativo di reperire l’idrossiclorochina comporta il rischio che altri rimangano senza», puntualizza Clavenna. «È importante evitare che le persone pensino di poter chiedere al medico di prescrivergliele al primo accenno di febbre o mal di gola. Dobbiamo aspettare che gli studi si concludano e che comunque sia il medico a fare una valutazione del caso, prima di decidere se prescrivere i farmaci».