Forse non immaginava che il suo compleanno, il 78esimo, lo avrebbe passato in quarantena, con tutto il mondo prigioniero di un virus. Non solo: nonostante Giorgio Agamben sia uno dei filosofi italiani più importanti del mondo, forse non avrebbe neppure pensato che certe sue parole – e riflessioni – finissero ad alimentare un dibattito così acceso come quello delle ultime settimane.
Un riassunto per i distratti: il 26 febbraio, discutendo dell’arrivo in Italia dei primi casi di Covid-19, definì, in un articolo apparso su Manifesto, la situazione attuale una «supposta epidemia». L’emergenza era «immotivata» e la malattia qualcosa «poco più di una normale influenza» con reazioni «esagerate». Per carità, non era certo l’unico. Lui, in più, sostenendosi su alcune tesi già espresse in un suo libro, “Lo stato di eccezione”, pubblicato durante la guerra in Iraq, andava a rispolverare alcuni temi filosofici ben conosciuti. Come lo stato di eccezione, appunto, la situazione politica estrema in cui il nomale – e normato – corso delle cose viene sospeso per affrontare (o in conseguenza di) una situazione di emergenza. Quello del distanziamento sociale (non c’era ancora il lockdown) era un esempio. Con l’aggravante che discendeva da un allarme immotivato e mirava a contenere le libertà degli individui.
Da quel momento sono passati quasi due mesi, la situazione è peggiorata: sia per le dimensioni dell’epidemia, sia per il numero di vittime causate, sia per la sua diffusione nel mondo. Non solo: le affermazioni di Agamben hanno provocato reazioni su reazioni. Ne è nato un dibattito, non sempre elevato, ma in cui molti intellettuali hanno reagito con rimproveri più o meno affettuosi. L’amico filosofo Jean-Luc Nancy si è divertito a ricordare i consigli, sbagliati, datigli dal filosofo italiano prima di una operazione. Paolo Flores d’Arcais, meno tenero, ha parlato di «farneticazioni», lo stesso Agamben ha risposto ha riveduto alcune posizioni, ne ha confermate altre.
L’11 marzo ha discusso sul tema del contagio, definendolo «estraneo alla medicina ippocratica» e associandolo alla figura dell’untore: ogni cittadino italiano diventava un possibile agente di contagio. Sostantivo che, agli occhi di Agamben, era presentato come un sinonimo, negativo, di contatto: premesse per la realizzazione del sogno del potere, cioè approfittare della situazione e portare avanti oscure manovre (un mondo di idee che a dischiuderlo porta nelle oscurità di Diego Fusaro e ahiai Alessandra Mussolini, cioè fino alle più strampalate teorie cospirazioniste, che non risparmiano anche virologi con qualche merito passato, come Luc Montagnier).
Ancora, torna sul tema una settimana dopo, con dei chiarimenti. Il 27 marzo rilancia alcune riflessioni. Ad aprile ragiona sul distanziamento sociale, citando Elias Canetti e ipotizzando che, come fenomeno, anche il fatto di stare separati porterebbe a inventare una massa di passivi, non di individualisti. Infine, il 14 aprile, fa una domanda: «Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?», testo in cui va a colpire la Chiesa – che si è fatta ancillare rispetto alla Scienza – e i giuristi, che hanno permesso che l’esecutivo sovrastasse il potere legislativo, fino a concludere che «una libertà sottratta non può salvare una libertà».
Argomentazioni più sottili e raffinate di prima, certo degne di un grande filosofo dalla visione ampia e approfondita. Ma le contestazioni, più o meno accese, continuano. E fanno emergere un sospetto: che le teorie interpretative della seconda metà del ’900, da Foucault in poi, comincino a mostrare la corda. Che gli automatismi interpretativi, fino a quel momento declinati nel mondo della teoria, di fronte alle cose della realtà, si inceppino.
Tutto sommato, lo ricorda lo stesso Flores d’Arcais: Agamben, molto apprezzato in ambito statunitense, è post-heideggeriano, post-foucaultiano, post-derridiano. La biopolitica spiega molto, ma non tutto. Lo stato d’eccezione, quando si verifica, non segue il manuale. E immaginare un Conte-Casalino che conquistano un Paese, per quanto inquietante possa essere, mantiene una punta di surrealtà che rende tutto meno serio (ma non meno grave).
È bene allora che un maestro come Agamben continui, come un assillo socratico, a sollevare idee. Ma è bene che le sue stesse idee vengano analizzate, contestate, a volte rifiutate. Del resto, per un popolo prigioniero di beghe politiche, piegato dalle incertezze ai vertici e consumato dal desiderio di ritrovare la vita di prima (già una posizione reazionaria: chi l’avrebbe detto?) anche questo rappresenta, almeno in parte, una forma di libertà.
Forse anche lui, che festeggia i 78 anni, lo apprezzerà.