MuseiIl mondo dell’arte ha bisogno di ripartire, ma non sa ancora bene come fare

Il 18 e 19 maggio dovrebbero riaprire, ma prima di trovare una soluzione per gestire prenotazioni e visite sarà importante restituire alla creatività italiana il suo posto nel mondo, dopo anni in cui è sparita dai radar

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Tra il 18 e il 19 maggio dovrebbero dunque riaprire i musei italiani anche se non è chiaro con quali regole, a partire dalla gestione dei flussi dei visitatori, necessariamente controllati e monitorati: all’ingresso sarà misurata a tutti la febbre, dotazione di mascherine e guanti, e immaginiamo la difficoltà del personale di sala a tenere le persone distanziate.

Ci sarà, insomma, molto da lavorare ed educare a nuove abitudini di comportamento: cominciando dai soli biglietti online e prenotati per tempo, no visite dell’ultimo minuto, no code agli ingressi, no audioguide, no gruppi, no scolaresche. Aprire si potrà, ma quanti musei davvero saranno in grado di riorganizzare un sistema che andava avanti da anni in poche settimane?

C’è preoccupazione e in questi ultimi giorni, infatti, si moltiplicano appelli e petizioni per la gestione del “dopo”, chiamate a raccolta estremamente poetiche e nobili che però non tengono conto di alcuni fondamenti organizzativi.

Il primo: parliamo il più delle volte di strutture molto carenti e vetuste, alcune site in edifici storici e aulici, le cui possibilità di ripartire sono ridotte al lumicino. Il secondo: c’è da considerare la questione economica, che si regge sull’analisi di costi e benefici.

Per un museo abituato a realizzare grandi numeri di visitatori e dunque di incassi, lavorare a scartamento ridotto, intorno al 30 per cento, equivale a un perdita che in gergo si direbbe bagno di sangue. In diversi stanno ragionando se non sia il caso di rimandare a settembre, con un piano capillare di riorganizzazione ed è probabile che in molti faranno così, calcolando la più che prevedibile riduzione del turismo per un’estate di cui sappiamo solo le incognite.

Paradossalmente i musei d’arte contemporanea, soprattutto quelli dotati di ampi spazi come il Castello di Rivoli, il Maxxi a Roma, il Pecci di Prato a fronte di un pubblico specialistico dunque ridotto nei numeri, sulla carta potrebbero patire di meno, però è evidente che le risorse per la programmazione saranno ulteriormente ridotte a fronte della necessità di riadattare comunque la struttura.

L’arte contemporanea, inoltre, basa il 70% della propria fortuna sulla socialità mondana che in vent’anni ha messo in piedi un esclusivissimo jet set internazionale: per un ben po’ toccherà dimenticarsi biennali e soprattutto fiere. E non è detto che se e quando (quando?) si tornerà alla normalità il meccanismo riparta da dove eravamo rimasti: in fondo rispetto al post 11 settembre la minaccia terrorismo è scesa, eppure non è che negli aeroporti, ad esempio, le norme di controllo si siano affievolite.

Da anni peraltro sono i partner privati a intervenire a fianco del pubblico per la produzione delle grandi mostre. Aziende che accettano il rischio economico e recuperano (quindi guadagnano) alla biglietteria. Prevedibile un lungo periodo di assenza di questa modalità: anche logisticamente sarà complicato spostare opere importanti dall’estero, non è difficile immaginare un biennio privo di fuochi d’artificio. Restano dunque le collezioni permanenti, che si possono integrare con i depositi, ma il sex appeal è davvero scarso.

Panorama desolante per la cultura espositiva e museale in Italia? Il ministro Franceschini ha parlato di «dolorosa traversata nel deserto», un’immagine forte e necessaria che rende l’idea, ma che non è la sola possibile, anzi. Il momento sembrerebbe propizio per un’arte di prossimità, ovvero quell’arte italiana di cui da tempo non si parla, sacrificata sull’altare della globalizzazione.

Se andremo in vacanza, sarà nel nostro Paese (fossimo residenti in Uzbekistan sarebbe stato peggio): gli architetti, anche quelli che si gettarono a capofitto sul nuovo skyline milanese, suggeriscono di riscoprire i borghi, magari rifuggendo le spiagge affollate.

Nel mondo dell’arte si comincia a sentir dire, responsabilmente, che una rilettura del panorama italiano degli ultimi decenni sia quantomeno necessaria, se non urgente. Lo ha scritto ad esempio il critico e curatore Marco Bazzini in un editoriale su “Artribune” e in diversi gli sono andati dietro. Diffido dal meccanismo delle petizioni troppo generiche ma è indubbio che qualcosa si stia muovendo.

L’ostacolo più evidente sarà fare sistema in un mondo, quello dell’arte, che più ancora del calcio vive di particolarismi e interessi personali. Il Covid si è portato via Germano Celant, il critico più titolato ad accreditare l’arte italiana all’estero. Però fu la sua versione, ovvero l’Arte Povera, il resto non contava nulla e anzi è stato azzerato.

Dalla metà degli anni ’80 in poi (a parte qualche rara eccezione come Maurizio Cattelan e Francesco Vezzoli) l’arte italiana è sparita dai radar, sottovalutata, persino umiliata alla Biennale di Venezia, ovvero a casa propria. Da nessun’altra parte del mondo è mai accaduto un fatto così grave.

Ci voleva, insomma, un’emergenza sanitaria e una crisi economica devastante per rimettere in piedi il sepolto mondo della creatività artistica italiana? Beh, se così fosse l’occasione è a portata di mano. Non basteranno però le iniziative dei singoli, necessita una strategia, un sistema e soprattutto una pluralità di sguardi.

Ecco perché non sarà facile, c’è già chi sgomita per reclamare il posto vacante che fu di Celant e dettare le nuove regole. Però capita che ogni tanto qualche maglia si allarghi, qualche falla si apra e allora, prima che il solito meccanismo riparta, potrebbe capitare davvero una piccola rivoluzione, culturale e in qualche modo identitaria.

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