Ha raggiunto il suo picco a Ibiza, affonda le radici negli anni ’80. Ma quello che non si sa – e che si vuole ricordare poco, forse per un comprensibile pudore – è che il fenomeno dell’eurodance, la musica da discoteca anni ’90, è stato in gran parte un prodotto italiano.
Ci pensa Le Monde ha rinfrescare la memoria, fissando qualche paletto: il genere inizia nel 1993, con “The Rhythm of the Night”, di Corona e finisce nel 1998, con “Blue (Da Ba Dee)”, degli Eiffel 65. Sei anni gloriosi, segnati da centinaia di hit, quasi tutte tamarre, italiane e, purtroppo, quasi tutte indimenticabili.
All’epoca non ci pensava nessuno – e visto il contesto, non sorprende – ma quelle musiche costituivano, secondo lo scrittore francese Aurélien Bellanger, «la colonna sonora di un’Europa in trionfo». Era l’epoca «del trattato di Maastricht, della sentenza Bosman, del tunnel sotto la Manica»: il nuovo continente si ritrovava, finita la Guerra Fredda e con l’Unione Sovietica ormai in macerie, «liberale, pacificato e postnazionale».
Quest’ultima parola è illuminante: nell’eurodance si sperimenta, almeno a livello discotecaro, la mescolanza di lingue e ritmi. Si canta in lingue diverse, si usano nomi stranieri, ci si camuffa, ci si scombina e ricombina.
Sono i prodromi dell’Unione Europea? Gli Ace of Base vengono dalla Svezia. I 2 Unlimited dall’Olanda. Mentre “Bailando”, hit del 1996, non viene da Ibiza ma da Liegi (cambia tutto, eh?). Il celebre Scatman John è americano, ma viveva a Berlino.
È un travestitismo di provenienze: i Los Locos non sono spagnoli, ma italiani. Stesso discorso per Ramirez, Caballero e Paraje – le mode sono mode, e quell’epoca era ispanizzante – mentre Mo-Do, che ha inventato l’inno del truzzo, cioè “Eins Zwei Polizei” era in realtà un italianissimo (con madre austriaca) Fabio Frittelli.
I Da Blitz (“Stay with me”) erano metà torinesi e metà tarantini, e nonostante i nomi anglofoni, Double ou, Bliss Team, Cappella, Gala, Ava and Stone Alexia e Asia sono tutti italiani.
Un primato nazionale che arriva fino a Indiana Day, i Co.Ro (“Because the Night”) e, come è ovvio, Corona. I testi erano in lingua straniera. Quelli italiani, nella top 100 del 1995, erano solo il 7%
Per i musicologi le date sono più sfumate. L’eurodance sarebbe il figlio diretto dell’italodisco, con cui condividerebbe la tendenza a usare lingue straniere.
Per fare due esempi: “Vamos a la playa” dei Righeira è del 1983 e “Boys” di Sabrina Salerno di quattro anni dopo.
Le differenze tra i due generi sono, se così si può dire, musicali. Il suono si raffredda, lo stile si fa più commerciale e sotto l’influsso della house, appena sbarcata dagli Stati Uniti all’inizio degli anni ’90, i ritmi si fanno più veloci, più semplici, più immediati. E i successi crescono.
Poi la stagione finisce e l’eurodance perde posizioni. Sempre secondo Bellanger, è in quel momento che svela la sua maschera. Sotto i ritmi angosciosi e ipnotici, spiega, «quella musica di festa nascondeva una tristezza abissale». Addirittura.
«L’eurodance è l’ultimo grande sogno transcontinentale. È un’elegia, solenne e sontuosa, che suona la campana del progetto europeo».
Forse è un’esagerazione. Ma qualcosa di vero in questa rilettura c’è. Alla fine degli anni ’90 si assiste a un cambiamento.
Si impongono nuovi ritmi – il “big beat” britannico, “il French touch” (Daft Punk e Stardust), la “dream”, la “prog” di Gigi D’Agostino. Dopo il canto del cigno (si fa per dire) degli Eiffel 65, l’eurodance chiude bottega. La festa è finita, ognuno si ritira nei propri confini.
Tornano le canzoni in italiano, il tricolore, Molella pubblica “Made in Italy”, gli Effel 65 lasciano perdere l’inglese. La priorità va al mercato interno. Nel 2019 le top 100 in lingua italiana costituiscono il 68%.
Se si pensa che l’eurodance è stata una ventata di novità, anche internazionale, per i frequentatori delle discoteche – realtà di provincia più che di città, in generale del centro-nord. E di destra, a volte estrema – si può iniziare a immaginare cosa possa significare, anche a livello politico, il ritorno delle hit italofone.
La risposta, allora, diventa ovvia. Nell’estate 2019, quella del record di canzoni italiane, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva passato l’estate a fare il dj al Papeete Beach, a Milano Marittima.
Un’immagine che aveva suscitato sconcerto: cosa ci faceva un rappresentante delle istituzioni a ballare e bere in spiaggia?
Stonava, perfino per un leader che ama le piazze e la mescolanza con il popolo, con il suo ruolo istituzionale. Mentre, si capisce ora, era del tutto intonato con i nuovi ritmi che da anni risuonavano delle discoteche del Paese.