Non solo laici contro cattoliciLe battaglie per l’identità di genere rischiano di danneggiare i diritti delle donne

Succede nello sport, dove le disparità fisiche risultano evidenti. C’è il problema delle carceri. Mentre in politica ci sono state quote rosa finite a uomini trans. Queste norme sono nate per contrastare la discriminazione, ma possono creare ulteriori divisioni, per esempio quelle italiane tra alcuni dirigenti Arci gay e Arci lesbiche

I vescovi hanno pronunciato il loro Non Possumus riguardo alla legge Zan-Scalfarotto contro l’omofobia, ma il dibattito aperto dalla proposta è assai più largo e problematico del vecchio scontro tra cattolici e laici.

Rispetto a due, cinque, dieci anni fa, quando si affacciarono i primi tentativi di perseguire le discriminazioni omofobe, c’è una novità. E va considerata.

Lo fa, ad esempio, Aurelio Mancuso, dirigente del Pd e già presidente di Arci Gay, quando su Facebook avvisa: «L’utilizzo del termine identità di genere anziché transfobia apre oggettivamente un conflitto molto forte con il femminismo della differenza e di quello radicale. Conflitto che non si sarebbe proposto fino a pochi anni fa, ma che ora investe una dura discussione pubblica in tutto il mondo. Proprio nelle file dei partiti progressisti potrebbero esprimersi forti contrasti, tali da pregiudicare, soprattutto in Senato, l’approvazione della legge».

Mancuso fa riferimento a un tema che sta incendiando e dividendo il mondo del femminismo da anni e di recente è esploso con furibondi attacchi alla creatrice di Harry Potter, J.K. Rowling, colpevole di aver difeso il concetto biologico di donna.

Non è una polemica ideologica. L’aver sostituito l’identità di genere al sesso biologico nella definizione dei concetti di «uomo» e «donna» sta provocando problemi consistenti nei Paesi e nelle organizzazioni sovranazionali che hanno imboccato questa strada.

In Inghilterra, punta avanzata di questo tipo di cultura, alcune quote politiche riservate alle donne da tempo sono occupate da uomini che si identificano come donne: già nel 2018 Jeremy Corbin usò le quote rosa per candidare in posizione di vantaggio persone che si dichiaravano donne, provocando l’esodo di centinaia di militanti e dirigenti donne del partito.

«È disonesto, puzza di autorità e supremazia maschile», scrissero le ribelli al Times osservando: «In questa situazione ogni uomo può semplicemente affermare di essere una donna» per ottenere i vantaggi collegati alla promozione della rappresentanza femminile.

La questione dell’identità di genere provoca da anni colossali problemi anche nel mondo dello sport. La leggenda del tennis Martina Navratilova, apertamente lesbica, è stata espulsa dal consiglio di amministrazione di Athlete Ally, per aver definito «ingiusto» consentire agli uomini che si dichiarano donne di competere atleticamente contro le donne biologiche.

Negli Usa gli sprinter o i lottatori transgender maschi che si identificano come femmine fanno man bassa delle classifiche sportive universitarie, sottraendo alle donne biologiche opportunità e borse di studio collegate ai risultati atletici.

Dal 2016 il Cio ha aperto le competizioni femminili agli uomini che si dichiarano donne, anche se non operati: è sufficiente sottoporsi a cure ormonali e dimostrare un basso livello di testosterone nei sei mesi precedenti alla gara.

Il paradosso è che la norma ha «punito» atlete biologicamente femmine come Caster Semenya, la 28enne sudafricana bi-olimpionica degli 800 piani, afflitta da iper-androginismo (un alto livello di ormoni maschili), obbligata a sottoporsi a cure per rientrare nei parametri previsti.

Ecco, quando si dice «identità di genere» questo è il conflitto del momento, che ha assai poco a che vedere con le antiche dispute sulla libertà d’opinione, la famiglia tradizionale, le proteste dei vescovi.

L’Italia non è immune dal confronto. Le due principali organizzazioni gay del nostro Paese, ArciGay e ArciLesbica, sono da tempo in guerra su questo terreno, ma di recente la temperatura si è fatta incandescente per il patrocinio concesso da ArciLesbica alla Declaration on women’s sex-based rights, documento che in pratica denuncia la discriminazione ai danni delle donne nel momento in cui il dualismo maschile e femminile viene sostituito da un linguaggio centrato sull’identità di genere.

Da giorni viaggia in rete una petizione lanciata da alcuni dirigenti ArciGay che chiede l’espulsione dall’Arci della storica sigla delle lesbiche, accusandola di usare i propri canali di comunicazione «per esprimere posizioni transfobiche e trans-escludenti, sempre più in aperto contrasto con i valori e con lo statuto della federazione Arci di cui fa parte».

Stare attenti alle parole che si usano, in un contesto così, è obbligatorio. Ed è bene che tutti gli attori della scena ne siano consapevoli, per evitare che una norma nata per contrastare la discriminazione generi inaspettate e dirompenti divisioni proprio all’interno del mondo che dovrebbe tutelare.

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