Senza “rete” un mondo interconnesso non esiste, come indica il significato ben preciso che questa parola ha assunto negli ultimi anni, diventata sinonimo improprio di web e internet. Se la rete è fondamentale dal punto di vista immateriale, lo è anche dal punto di vista fisico: senza rete ferroviaria un Paese come l’Italia non sarebbe davvero unito.
Ventiquattromila chilometri e mezzo di binari, di cui più di mille ad alta velocità: dal 2010 hanno permesso al treno di diventare un mezzo di trasporto molto competitivo per chi viaggia tra le grandi città italiane e fino a pochi anni fa avrebbe scelto l’aereo o l’automobile. Un esperimento di successo, che finalmente ha colmato il divario con gli altri grandi Paesi europei, da tempo molto attenti alla mobilità ferroviaria.
E grazie al Recovery fund appena varato dall’Unione europea la nostra rete potrebbe cambiare ancora, in meglio, grazie a nuovi investimenti.
Delle 130 opere strategiche stilate dal ministero dei Trasporti a inizio mese buona parte sono ferroviarie: tra le principali si trovano le linee di alta velocità (non sempre piena, come quella tra Milano e Roma) della Salerno-Reggio Calabria; tra Palermo, Catania e Messina; il collegamento tra Venezia e Trieste. Poi una serie di altre opere in Liguria, sull’anello intorno a Roma, in Sicilia e in Puglia. Tanto Sud insomma, e tante tratte regionali per pendolari. Anche se la realizzazione delle opere sarà tutta un’altra storia: non è infatti la prima volta che il ministero stila una lista di opere strategiche che poi rimane nel cassetto.
Come si spostano gli italiani e le merci? Sul mercato dei passeggeri i treni fanno soltanto il 6 per cento del totale, secondo i dati Eurostat, due punti meno della media europea e molto meno di alcuni paesi nordici ma anche della Francia e della Germania. In auto invece si muove una quota enormemente più alta: più di 8 italiani su 10.
Per le merci il discorso non cambia più di tanto: in Europa più del 70 per cento dei prodotti (calcolati per tonnellate-chilometro, per tenere conto sia del carico che della distanza) passa su gomma, mentre su rotaia gira solo poco più del 20 per cento. Così come in Italia.
Il motivo è presto detto, ed è una regola del mercato: muovere le merci sui camion costa meno che usare i vagoni dei treni. Un risparmio che dipende dalle condizioni generali del sistema (il costo del lavoro è più basso) e dalla rigidità della rete ferroviaria, che sconta le scarse infrastrutture presenti sul territorio italiano. Non solo per i chilometri di binari, ma anche e soprattutto per gli interporti: cioè i nodi dove poter cambiare mezzo e spostare i container da gomma a ferrovia, o il contrario.
Secondo alcuni esperti siamo privi o quasi di infrastrutture all’altezza. Tra i più grandi ne contiamo solo quattro: Verona, Busto Arsizio, Vigevano e un quarto nella provincia di Bologna. Pochi, e tutti al Nord. La Lombardia è vicina alla media europea in termini di presenza di ferrovie, ma è sotto-infrastrutturata sulle piattaforme su cui si spostano i container. Per le imprese non è sempre conveniente allungare gli spostamenti per raggiungere i rari interporti, e perciò – questo è il ragionamento di molti – tanto vale mantenere l’intero trasporto su gomma.
Secondo l’economista dei trasporti Marco Percoco (Università Bocconi), in Italia siamo in un circolo vizioso: «Visto il più basso costo del trasporto su gomma, la domanda di trasporto su ferro non cresce. Se questa domanda non cresce, costruire le infrastrutture che potrebbero rendere i treni più competitivi sembra poco necessario».
Ma perché è importante investire sui treni come via di trasporto? «Il motivo principale è l’impatto ambientale, minore per i treni rispetto ai camion», risponde l’esperto.
In un momento in cui è essenziale ridurre l’impatto climatico umano, spostare su rotaia una fetta del trasporto delle merci può essere una strada da percorrere. In effetti secondo la Corte dei Conti europea l’emissione di CO2 per il trasporto su strada (ogni tonnellata-chilometro) è più del triplo rispetto alle ferrovie. Si tratta di dati del 2012, ma da allora è cambiato poco. Ed è proprio per questo che anche altri Paesi europei stanno investendo sulla ferrovia, Francia e Germania tra tutti dopo l’esempio dell’Austria che è arrivata per prima.
Ma non tutti gli esperti condividono questa analisi. Per esempio Marco Ponti, economista dei trasporti al Politecnico di Milano ora in pensione e membro della struttura tecnica di missione del ministero dei Trasporti che l’anno scorso ha firmato l’analisi costi-benefici negativa sulla Tav Torino-Lione.
A suo parere «la rete è già sovrabbondante rispetto alla domanda e dunque la priorità di costruire nuove infrastrutture è priva di senso». L’Italia è in crisi economica e crisi demografica, e i costi di trasporto per le aziende non sono un problema secondo Ponti. Lo sono al massimo gli interporti, ma anche in questo caso nuove infrastrutture non attiverebbero la domanda.
E l’impatto ambientale? «Chi spinge per la costruzione di nuove ferrovie scommette sul cosiddetto cambio modale, cioè il passaggio di merci e passeggeri sulla ferrovia. Ma questo cambio non è avvenuto in passato, e non si verificherà a mio parere nei prossimi anni». Secondo i calcoli di Ponti «se il traffico merci ferroviario raddoppiasse, le emissioni di CO2 calerebbero di solo lo 0,8 per cento» (anche se questa stima non è condivisa da tutti gli esperti).
E poi c’è l’elefante nella stanza, al centro delle discussioni politiche da decenni: il Sud, dove vivono circa 20 milioni di italiani sostanzialmente privi di vera alta velocità. Cioè quella che viaggia a 300 chilometri l’ora. L’alta velocità di rete, che si basa sulla velocizzazione di linee già esistenti ad almeno 200 chilometri l’ora senza posare nuovi binari apposta per i Frecciarossa e i treni di Italo, è a macchia di leopardo.
Secondo Andrea Boitani, economista dell’Università Cattolica e attualmente membro del Cda di Atlantia, «un Paese coeso non può considerare i cittadini del Sud di serie B». Si tratta di aree con minore densità abitativa e con un’economia meno sviluppata: «È ovvio che se si mettesse a confronto la convenienza di progetti per nuove opere al Nord con progetti al Sud, il Settentrione vincerebbe a mani basse». Ma non deve esser questo il solo criterio: «Strade e ferrovie per andare da Cagliari a Sassari in tempi ragionevoli devono esserci».
Così sembra credere anche Ferrovie dello Stato, monopolista pubblico della rete ferroviaria e anche attore della mobilità con Trenitalia. Un piede in due scarpe di cui la concorrenza soffre ma che garantisce l’interesse di Ferrovie dello Stato a migliorare la rete. Il gruppo, di proprietà al 100 per cento del ministero dell’Economia, che trasferisce all’azienda diversi miliardi di euro, nel 2019 ha raggiunto un utile record da più di 500 milioni di euro. E ora si appresta a finanziare gli investimenti.
Prima dello scoppio della pandemia, il piano industriale di Rfi per quest’anno prevedeva 20 miliardi di nuovi investimenti. Numeri che sono stati confermati dall’azienda, sentita direttamente da Linkiesta. Quasi la metà andranno a finanziare opere nel Mezzogiorno, e molte risorse verranno utilizzate per rinnovare il parco treni (il 40 per cento dei mezzi ha più di 15 anni) acquistando nuovi mezzi, con velocità di crociera di 160 e 200 chilometri orari.
Il settore è in fermento anche per la liberalizzazione delle ferrovie europee. A partire da dicembre 2020 il trasporto ferroviario entrerà in un mercato concorrenziale, come è già in parte in Italia con l’esempio virtuoso di Italo. E le aziende stanno facendo a gara per accaparrarsi le tratte più redditizie, come sta accadendo per la Parigi-Lione su cui Trenitalia farà concorrenza ai Tgv francesi. Sempre che il coronavirus non abbia davvero cambiato tutto e distrutto il mercato dei viaggi, bloccando sul nascere gli appetiti delle aziende ferroviarie europee.